Rimettere la vita al centro. Recensione del volume Prison Lives Matter di Francesca Cerbini (2025)
Recensione di Martina Millefiorini (Università Roma Tre) al volume di Francesca Cerbini edito da Elèuthera nel 2025. La recensione è stata pubblicata presso L’Indice dei libri del mese nel numero di giugno 2025.
Il volume di Francesca Cerbini “Prison lives matter” è un testo importante per comprendere l’approccio dei nuovi studi sul carcere. Spingendosi oltre, il testo appare particolarmente prezioso in un momento in cui affiorano in Italia studi e riflessioni che assumono una prospettiva abolizionista. In Italia esistono già ricerche sul carcere che abbracciano questa prospettiva, come è sottolineato dall’autrice a più riprese e con diversi rimandi nel corso del libro, ma gli studi più recenti attingono direttamente dai movimenti che aspirano ad abolire il carcere. Alcuni di questi gruppi di persone in lotta si rifanno ad una tradizione che ha ben poco o in parte a che vedere con i ragionamenti sul carcere del pensiero “occidentale” (e di persone bianche), ma partono invece dal margine, come il femminismo abolizionista statunitense. E per questo motivo gli studi condotti dall’autrice e dalle autrici e autori da lei citati, che spostano lo sguardo al “Sud” (cito) globale, danno ossigeno alla critica del carcere, se l’obiettivo è davvero rimettere al centro la vita delle persone che lo abitano, come di quelle fuori. Nel primo capitolo, l’autrice analizza, con un ricchissimo bagaglio teorico, la costruzione della “magia del carcere”, ovvero quell’immaginario che lo tramuta in luogo “dei cattivi” e luogo in cui può avvenire una rieducazione in grado di trasformare il detenuto con “ordine e disciplina”, (re-citando Foucault). Il carcere è innanzitutto luogo di sofferenza e privazione di persone per gran parte già sottoposte a marginalizzazione a causa di molteplici fattori come i processi di razzializzazione e la classe. La popolazione carceraria globale è infatti formata da persone che difficilmente riescono ad uscire dal “tunnel” dentro-fuori dal carcere in una cornice quasi immutabile di esclusione e marginalità. Viene poi affrontato, in maniera molto onesta, la difficoltà di “fare etnografia” (cap. II) in carcere, con il rischio di assumere posture stereotipate o che riproducano pregiudizi che gli operatori del carcere, anche inconsciamente, applicano ai detenuti e alle detenute. La vita di questi ultimi risulta ancora più burocratizzata rispetto al “fuori”, in quanto ogni minima azione o autodeterminazione deve essere classificata in documenti che diventano rappresentativi essi stessa dell’identità del detenuto. L’etnografia si muove quindi su binari complessi, in cui più persone e oggetti partecipano in modo corale a restituire quella che è l’istituzione carceraria oggi, che sembra sempre più attenta alle funzioni del carcere piuttosto che ai detenuti stessi. La parte più interessante del testo è però la seconda, in cui si riportano le ricerche dell’autrice e di altre autrici e autori in diversi paesi come il Brasile, il Venezuela e il Perù. Questa parte inizia con un’analisi molto attenta di come il carcere sia ormai diventato, a livello globale, “post-disciplinare”, ovvero come in tutto il mondo le carceri abbiano assunto un funzionamento e una governance basata su criteri di produttività e di merito dei detenuti ma anche degli operatori. Infatti, la responsabilità della qualità della vita condotta in carcere segue logiche di merito e di capacità individuale, con la conseguente de-responsabilizzazione, sempre più visibile, dell’istituzione e quindi dello Stato. Su questa scia, i capitoli successivi descrivono esperienze di detenzioni in paesi del “Sud globale” ove emerge tutta la “porosità” delle carceri dove sono presenti forme di auto-governo. Ivi, nella commistione tra la violenza dell’istituzione e la violenza privata è possibile scorgere più crepe e contraddizioni. Nel miscuglio tra de-responsabilizzazione statale e/o appalto diretto ad altri gruppi di potere privati (legati o meno ad affari “criminali” o al “narcotraffico”) emerge la resistenza dei detenuti e delle detenute, in un continuum tra quanto vivono “dentro” e quanto “fuori” di cui i confini diventano, per l’appunto, sempre più “porosi”. La porosità si trasforma in vera e propria lotta politica autonoma nel capitolo che analizza la ricerca condotta da Karina Biondi sul Primeiro Comando da Capital (PCC). Il PCC è un gruppo “criminale” responsabile dello scoppio di diverse insurrezioni all’interno delle carceri brasiliane durante diversi anni e che, oltre ad attirare simpatie e ricerche, ha rappresentato un modello di vita e di governo – seppur in maniera contraddittoria- diverso all’interno e fuori delle carceri e ben lontano dalla violenza che ci si aspetterebbe. Infatti, dalle ricerche emerge con chiarezza come il PCC sia stato un autogoverno di detenuti, persone escluse dalla società brasiliana (di cui molti abitanti delle numerose favelas del paese) ed in lotta per ottenere una qualche forma di giustizia sociale. Per citare l’autrice, che a sua volta cita Comaroff, domandiamo: “è il Sud ad offrire una visione privilegiata di ciò che avviene nel mondo nella sua interezza?” e a questa domanda non si può che rispondere: sì. È solo attraverso questa ed altre ricerche che è possibile interrogarsi seriamente sul carcere, sulla sua funzione e sul mondo che lo circonda, e rimettere al centro la vita delle persone che lo abitano.