Skip to main content

Rassegna sul Reato di Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, art. 612 ter c.p. Aggiornamento a febbraio 2025

La rassegna riporta la giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di reato di “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” (art. 612 ter c.p.). Le pronunce citate sono state selezionate tra le sentenze depositate sulla materia tra novembre 2024 e febbraio 2025, secondo un criterio di rilevanza e di interesse per i temi di ricerca dell’Osservatorio. La rassegna è stata redatta da Martina Millefiorini ed Elettra Coppola, con la supervisione delle avv. Ivonne Panfilo e Tatiana Montella.

  • Stalking e corteggiamento persistente

“L’invio reiterato di messaggi affettuosi e non esplicitamente minatori può configurare il reato di stalking se il destinatario, non legato sentimentalmente a chi li invia, vive un perdurante stato di ansia o modifica le proprie abitudini di vita. Anche condotte di persistente corteggiamento, con riferimenti sessuali e senza minacce, possono integrare il delitto di atti persecutori, specialmente se destinate a persona già legata sentimentalmente ad altra”.

Con la Cass. pen., Sez. V, Sentenza, 13/11/2024, n. 3875, la Corte giudica un caso di atti persecutori (art. 612-bis c.p.). L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione contestando l’errata valutazione delle prove e difetto di motivazione sulla sussistenza del reato di stalking. Lamenta anche l’errata ricostruzione dell’elemento soggettivo del reato di stalking, sostenendo che i messaggi erano espressione di affetto e non persecutori, la mancata considerazione dell’errore scusabile sulla percezione del consenso della persona offesa. La difesa richiede la derubricazione del reato di stalking in molestie (art. 660 c.p.), per assenza di eventi tipici (stato di ansia o modifica abitudini di vita). La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendolo inammissibile e infondato.
Innanzitutto i messaggi inviati (spesso con connotazioni sessuali esplicite) e i comportamenti invasivi (citofonate, appostamenti, pedinamenti e riferimenti alle abitudini quotidiane della persona offesa) sono stati ritenuti idonei a integrare il reato di atti persecutori, provocando stato d’ansia, timore e una modifica delle abitudini di vita della vittima (ad esempio, evitare di uscire da sola e farsi accompagnare). La Cassazione ha ricordato che il reato di stalking può essere integrato anche in presenza di avances insistenti e non minacciose, allorché la loro reiterazione e invasività siano tali da creare uno stato di ansia e paura nella vittima. Non serve una vera e propria minaccia, essendo sufficiente che le condotte, per la loro insistenza e invasività, incidano negativamente sull’equilibrio psicologico e sulla libertà di autodeterminazione della persona offesa, costringendola a modificare le proprie abitudini di vita. Inoltre, la ripetizione nel tempo delle condotte persecutorie esclude la particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.), poiché rivelatrice di una condotta pervicace.

  • Stalking e diffamazione

“Il delitto di atti persecutori può concorrere con quello di diffamazione anche quando nelle modalità della condotta diffamatoria si esprimono le molestie reiterate costitutive del reato previsto dall’art. 612-bis c.p.”.

Con la sentenza Cass. pen., Sez. V, 02/10/2024, n. 43089, la Corte è chiamata a giudicare una caso di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) e diffamazione (art. 595 c.p.). l’imputato ha proposto ricorso in Cassazione e tra i motivi lamenta l’errata qualificazione dei fatti come stalking negando che vi fosse una vera e propria condotta persecutoria. La Corte rigetta il ricorso e conferma la configurabilità del delitto di atti persecutori (art. 612-bis c.p.), evidenziando che le condotte reiterate e invasive, poste in essere dall’imputata, consistite in molteplici comunicazioni rivolte alla persona offesa, non si inserivano in un rapporto dialettico, ma erano espressione di un comportamento persecutorio. La Cassazione ha valorizzato la significativa sequenza di comportamenti ascritti all’imputata, tra cui messaggi insistenti e ossessivi, alcuni dei quali contenenti minacce esplicite (“rovinargli la vita”, divulgare sue fotografie private, accusarlo di violenza sessuale), oltre alla prospettazione di rivelare al figlio della vittima circostanze riservate.

Le condotte hanno determinato nella persona offesa un perdurante e grave stato di ansia e di paura, con effetto destabilizzante sulla sua serenità ed equilibrio psicologico. Tale stato di ansia è stato ampiamente descritto dalla vittima e confermato dai testimoni escussi, che hanno riferito di aver assistito al progressivo turbamento della persona offesa.

La Cassazione ha sottolineato che, ai fini della configurabilità del reato, non è necessario l’accertamento di uno stato patologico, essendo sufficiente che le condotte siano idonee a destabilizzare l’equilibrio psicologico della vittima. La prova del grave stato d’ansia può infatti essere dedotta anche dalla natura ossessiva e invasiva dei comportamenti tenuti dall’agente.

Inoltre, la Corte ha evidenziato che la persona offesa è stata costretta ad alterare le proprie abitudini di vita, modificando la propria routine: ha cambiato numero di telefono, ha reso segreti i suoi rientri in Italia e si è dimessa dal suo incarico lavorativo, decisioni che la Cassazione ha considerato conseguenza diretta delle condotte persecutorie dell’imputata.

Questi elementi, unitamente alla reiterazione e alla ossessività delle condotte, hanno permesso di ritenere integrato il reato di atti persecutori, come correttamente affermato dalle sentenze di merito.

  • Stalking procedibile d’ufficio per connessione con resistenza a pubblico ufficiale

“Rientra nella nozione di molestia, quale elemento costitutivo del reato, qualsiasi condotta che concretizzi una indebita ingerenza od interferenza, immediata o mediata, nella vita privata e di relazione della persona offesa, attraverso la creazione di un clima intimidatorio ed ostile idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica”. 

Con la sentenza Cass. pen., Sez. V, Sent., (data ud. 18/12/2024) 24/02/2025, n. 7406, la Corte è stata chiamata a giudicare un caso di un uomo responsabile di atti persecutori (art. 612-bis c.p.) e di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) nei confronti dei carabinieri intervenuti. L’imputato ha proposto ricorso in Cassazione chiedendo di riqualificare il delitto nel meno grave reato di cui all’art. 612 cod. pen. poiché la persona offesa aveva rimesso la querela, la connessione tra stalking e resistenza a pubblico ufficiale (che giustifica la procedibilità d’ufficio) non sarebbe stata adeguatamente motivata ed infine non era chiara la gravità delle sue condotte, che non avrebbero avuto l’impatto psicologico richiesto per configurare lo stalking. La Corte dichiara il ricorso inammissibile, poiché affetto da integrale a-specificità. Il ricorrente non ha illustrato le ragioni per cui la Corte d’Appello avrebbe dovuto riqualificare la condotta abituale di atti persecutori in una minaccia semplice, né si è confrontato con l’articolato tessuto argomentativo contenuto sia nella sentenza di primo grado che in quella di appello. Le decisioni di merito hanno, infatti, dettagliato gli svariati e dettagliati elementi di prova, riscontrati reciprocamente, e rappresentati da: denunce-querele delle persone offese, annotazioni di polizia giudiziaria relative agli interventi effettuati in occasione delle indebite e aggressive interferenze dell’imputato nella quotidianità delle vittime, disamina dei messaggi memorizzati nei telefoni cellulari, caratterizzati da ingiurie e minacce, post pubblicati sui social, anch’essi univocamente significativi della condotta persecutoria.

Tale congerie di indicatori è stata ritenuta scolasticamente riconducibile al paradigma dell’art. 612-bis cod. pen.. inoltre, il corredo giustificativo delle sentenze di merito ha compiutamente dato conto della sussistenza di una connessione tra il reato di atti persecutori e il delitto di resistenza a pubblico ufficiale, tale da giustificare la procedibilità d’ufficio, in linea con il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (sez. 5, n. 14692/2012 e sez. 5, n. 39758/2017).

In particolare, è stato evidenziato che gli accadimenti rappresentano evidenza dell’innesto della resistenza a pubblico ufficiale nella sequenza dei plurimi atti di stalking in fase di consumazione.

L’imputato fu sorpreso e bloccato dai carabinieri mentre stava compiendo una delle vessazioni in pregiudizio della coppia di vittime. La persona offesa udì rumori di bottiglie infrante nei pressi della porta di casa, constatò la presenza dei vetri rotti, si barricò nell’abitazione e percepì l’invasiva presenza del prevenuto. Le espressioni offensive rivolte ai Carabinieri furono immediatamente collegate alle finalità persecutorie, sicché la neutralizzazione della sua condotta persecutoria fu causa della violenta reazione nei confronti dei pubblici ufficiali intervenuti.

Richiamando i consolidati principi della giurisprudenza di legittimità (sez. 5, n. 1753/2021 e sez. 5, n. 25248/2022), la sentenza ribadisce che:

Rientra nella nozione di molestia qualsiasi condotta che concretizzi una indebita ingerenza od interferenza, immediata o mediata, nella vita privata e di relazione della vittima, attraverso la creazione di un clima intimidatorio ed ostile, idoneo a comprometterne la serenità e la libertà psichica“.

Proprio questo è quanto accaduto nel caso di specie, nel quale l’imputato ha sistematicamente interferito nella vita privata delle vittime, ha posto in essere una pressione continua, fatta di messaggi ossessivi, minacce, pedinamenti e comportamenti intimidatori, ed infine tale condotta ha effettivamente generato ansia e paura, costringendo le vittime a modificare le proprie abitudini di vita.

  • Stalking: prova dell’evento e sintomi del turbamento psicologico

“In tema di atti persecutori, la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata”.

Nella sentenza Cass. pen., Sez. V, Sent., 21-02-2025, n. 7267, la Corte è chiamata a giudicare un caso di atti persecutori (art. 612 bis). L’imputato, tra i motivi di ricorso, ha contestato l’idoneità delle condotte a generare uno stato d’ansia nella persona offesa. La Corte rigetta il ricorso ritenendo che sul punto, i Giudici di merito, rifacendosi anche alle riscontrate dichiarazioni rese dalla persona offesa, hanno fornito una specifica motivazione in merito alla produzione dell’evento, argomentando come le condotte minacciose e moleste realizzate dall’imputato abbiano avuto l’effetto di determinare in capo alla vittima un grave stato d’ansia e di portarla a cambiare alcune abitudini di vita.

Tale conclusione appare del tutto in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, in tema di atti persecutori, la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (ex multis Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, S., Rv. 269621; Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, G., Rv. 261535).

Parimenti privo di qualsiasi fondamento è il rilievo per cui la vittima avrebbe mantenuto negli episodi richiamati un contegno non compatibile con la maturazione di uno stato d’ansia. In realtà, la giurisprudenza di legittimità sostiene che il reato di atti persecutori non presuppone l’assoluta passività della persona offesa, atteso che alcuna indicazione in tal senso è ricavabile dall’art. 612-bis c.p. Al contrario, si è chiarito da tempo come il comportamento reattivo della vittima alle condotte persecutorie non è di per sé sintomo della mancata causazione degli eventi tipici del reato, potendo anzi costituirne valido sintomo (ex multis Sez. 5, n. 42643 del 24/06/2021, A., Rv. 282170).

  • Stalking e minori: il divieto di avvicinamento tutela anche i figli

“È legittimo, in tema di atti persecutori, il provvedimento cautelare che disponga il divieto di avvicinamento dell’indagato al figlio minore anche non direttamente persona offesa dal reato, nonostante il diritto di visita riconosciuto dal giudice civile della separazione, dovendo ritenersi prevalenti, in funzione del “best interest of the child”, le ragioni di tutela del minore da ogni pregiudizio su quelle dello “stalker” ad esercitare le prerogative genitoriali”.

Con la sentenza Cass. pen., Sez. V, Sent., (data ud. 24/09/2024) 28/11/2024, n. 43689, la Corte ha giudicato un caso di atti persecutori aggravati. La vicenda riguarda il rigetto, da parte del Tribunale del riesame di Milano, dell’appello presentato dall’imputato contro l’ordinanza del GIP, che aveva negato la revoca del divieto di avvicinamento all’ex moglie, ai suoceri e al figlio minore. Il divieto era stato applicato nell’ambito di un procedimento per atti persecutori aggravati (art. 612-bis commi 1 e 2 c.p.).

Nella pronuncia in esame, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del divieto di avvicinamento al figlio minore disposto nei confronti dell’imputato, pur non essendo il minore persona offesa dal reato di atti persecutori contestato, che vedeva come vittime l’ex moglie e i suoceri. La decisione è stata conforme al dettato normativo dell’art. 282-ter c.p.p., che espressamente consente al giudice di estendere il divieto di avvicinamento anche a prossimi congiunti o conviventi della persona offesa, qualora sussistano ulteriori esigenze di tutela. Il minore, in quanto figlio della persona offesa, rientra senza dubbio tra i soggetti che possono essere protetti dalla misura. Il Tribunale del riesame, secondo la Corte, ha svolto un’attenta valutazione, bilanciando il diritto alla genitorialità di A.A. con la necessità di garantire la preminente tutela del figlio, applicando il principio del best interest of the child. Tale principio, radicato nell’art. 3 e art. 8 della CEDU; nell’art. 3, par. 1 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (ratificata in Italia con legge n. 176/1991) e nell’art. 31 della Convenzione di Istanbul, che sancisce la prevalenza assoluta dell’interesse superiore del minore in tutte le decisioni che lo riguardano, soprattutto nei contesti di violenza domestica. La riforma Cartabia (D.Lgs. n. 149/2022) ha ulteriormente rafforzato questa impostazione, introducendo un’intera sezione del codice di procedura civile dedicata alla violenza domestica e di genere (artt. 473-bis.40 e seguenti), ribadendo la necessità che la protezione del minore abbia priorità assoluta rispetto a qualsiasi interesse del genitore autore di violenza.
La misura è stata ulteriormente giustificata dalla valutazione delle condotte pregresse dell’imputato, che, secondo quanto rilevato dal Tribunale, aveva strumentalizzato la gestione del figlio per reiterare comportamenti minacciosi e vessatori nei confronti dell’ex moglie, in un contesto di acredine e tensione che coinvolgeva anche i familiari della donna. Il Tribunale ha evidenziato che eventuali incontri con il figlio avrebbero inevitabilmente comportato nuovi contatti con l’ex moglie e i suoi genitori, favorendo la reiterazione di condotte illecite.


Infine, la Cassazione ha sottolineato che, dopo l’adozione della misura del divieto di avvicinamento, l’imputato si è reso protagonista di una gravissima aggressione nei confronti dell’ex moglie e del suocero (poi deceduto), circostanza che ha portato alla sostituzione della misura con la custodia cautelare in carcere. Tale fatto, oltre a rappresentare una conferma della pericolosità concreta e attuale dell’indagato, ha determinato anche una sopravvenuta carenza di interesse a contestare la misura originaria, ormai superata dalla misura più grave.
In definitiva, la Corte ha ribadito che il divieto di avvicinamento al figlio minore è pienamente legittimo anche se il minore non è persona offesa dal reato, quando tale misura è giustificata da esigenze di tutela indiretta della persona offesa e dal superiore interesse del minore a crescere in un ambiente libero da tensioni, violenze o conflitti generati dal genitore autore di condotte persecutorie.

image_pdfScarica PDFimage_printStampa la pagina