Recensione del libro “ROMPERE IL SILENZIO. Per un’università libera da molestie e violenze di genere”, a cura di Marco Deriu e Tiziana Mancini, edito nel 2024 da Castelvecchi editore
Il volume “Rompere il silenzio. Per un’università libera da molestie e violenze di genere” è sia un testo di ricerca che una preziosa raccolta di buone pratiche per il contrasto alla violenza di genere nelle università. Il volume è il risultato di un progetto di ricerca dell’Università di Parma svolto presso il Centro Interdipartimentale di Ricerca Sociale (CIRS), che ha coordinato le ricerche e l’analisi dei dati e delle interviste raccolte nel testo. In Italia sono state prodotte poche ricerche sulle molestie nei luoghi di lavoro e di studio, specialmente le università, e raramente hanno coinvolto sia gli attori istituzionali che gli studenti e le studentesse come si apprezza, invece, in questo testo.
La ricerca ricostruisce il quadro giuridico italiano e internazionale sul contrasto alle molestie (cap. 2); inoltre, è molto ricco il quadro teorico interdisciplinare ricostruito sulle molestie nei luoghi di lavoro e i loro effetti, come degli effetti dell’introduzione di codici di condotta a contrasto di questi abusi (cap. 3). Ma la parte senza dubbio più interessante, e che rende il volume il primo esempio di una ricerca così articolata, è quella relativa alle molestie presso l’Università di Parma analizzate attraverso interviste, questionari e un focus group con le studentesse e gli studenti. Non solo la mole del materiale empirico raccolto è notevole, ma l’analisi dei dati raccolti permette di cogliere la complessità delle molestie nell’università. Il capitolo 4, infatti, illustra i risultati del questionario sottoposto a tutta la comunità accademica (in particolare a studenti e personale amministrativo) e le interviste a coloro che hanno dato il consenso a colloqui più approfonditi in virtù della loro posizione di testimoni o di persone offese da molestie. Il capitolo 5, invece, offre un’ampia analisi dei pareri raccolti dalle istituzioni apicali poste a contrasto delle molestie, come la Consigliera di fiducia o i servizi di counseling psicologico dell’università. Il capitolo 6 presenta, di seguito, i risultati del focus group condotto dalle ricercatrici/ori con gli studenti e le studentesse ove è stato approfondito il tema delle molestie con coloro che quotidianamente abitano l’università. A fronte dell’esperienza maturata, gli autori e le autrici del libro forniscono, infine, quelle che possono essere definite delle “linee guida” sulle azioni che l’istituzione universitaria può svolgere a contrasto della violenza di genere e per “un’università (sempre più) libera dalle molestie”, citando Chiara Scivoletto, autrice della postfazione al volume.
Ma la struttura e la notevole base empirica della ricerca, assieme alla completezza del quadro teorico proposto, non sono, ad avviso di chi scrive, le uniche apprezzabili novità di questo testo, che si inserisce all’interno di un dibattito fecondo che lentamente sta attraversando diversi atenei italiani. Ciò che è davvero rilevante è il posizionamento da cui parte il libro che, senza imporre dogmatismi, decide di assumere il punto di vista di molte associazioni, come di autrici, femminili e femministe, nell’osservazione delle molestie come del fenomeno della violenza di genere. La ricerca assume, infatti, le premesse e il testo della Convenzione di Istanbul, come indicato fin dalla prefazione scritta dalla presidente e vicepresidente del CUG (Comitato unico di garanzia) dell’università parmense. Assumere la Convenzione come testo di riferimento significa necessariamente considerare la violenza di genere come un fenomeno sistemico, intergenerazionale e intersezionale e, soprattutto, capillare nella struttura sociale. Questo tipo di approccio sarebbe stato comunque leggibile, aldilà dei rimandi alla Convenzione, dal tipo di analisi svolta sui dati raccolti. E infatti viene posto l’accento su una serie di elementi emersi molto importanti quali: il linguaggio sessista o intriso di stereotipi che diventa anch’esso molestia e azione discriminatoria se utilizzato in presenza di studenti e studentesse; la scarsa tendenza alla denuncia da parte delle persone offese per paura di ritorsioni nella carriera lavorativa, formativa e accademica; la percezione dell’università come un luogo dove le relazioni di potere sono molto invasive e gerarchiche ma anche mantenute formalmente nell’ombra. In questo contesto risulta evidente a tutti gli studenti ma anche alle “osservatrici privilegiate” o key informants menzionate, che questo tipo di relazioni possono mettere particolarmente in pericolo i progetti educativi e lavorativi degli studenti e studentesse e dei ricercatori e ricercatrici.
Le azioni di contrasto devono, pertanto, essere di natura preventiva ma anche gli strumenti sanzionatori devono essere in grado di rispondere alle esigenze di tutela specialmente di chi studia e chi lavora. Dalla ricerca emerge che l’ateneo di Parma sembra contraddistinguersi per le azioni di prevenzione (tra cui la ricerca stessa) e quelle di contrasto. Per fare un esempio, diversamente da quanto accade in altri atenei, quello parmense è dotato di un organo di mediazione – Consigliera di fiducia – rappresentato da una persona esperta di contrasto alla violenza di genere ed esterna all’università. Ma dalle stesse ricerche emerge come, per i motivi menzionati, sia difficile non solo avere dati precisi sulle molestie o micro-violenze o discriminazioni che avvengono, ma anche misurare l’utilità delle azioni di contrasto. Insieme alle numerose buone pratiche raccolte, da questa ricerca emerge anche con forza come le persone tradizionalmente oppresse maggiormente dalle molestie, come le studentesse donne o persone LGBTQIA+, abbiano attivato strategie sia informali che formali sempre più efficaci contro le molestie, tali da spingere l’ateneo a porre sempre più attenzione alle tematiche di genere.