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Rassegna sul Reato di Violenza sessuale, art. 609 bis c.p. Aggiornamento a ottobre 2024

La rassegna riporta la giurisprudenza della Corte di cassazione sul reato di “Violenza sessuale” (art. 609 bis c.p.). Le pronunce sono state selezionate tra le sentenze depositate tra maggio e settembre 2024 in materia, secondo un criterio di rilevanza e di interesse per i temi di ricerca dell’Osservatorio. La rassegna è stata redatta da Martina Millefiorini ed Elettra Coppola, con la supervisione delle avv. Ivonne Panfilo e Tatiana Montella.

  • Violenza sessuale in presenza di maltrattamenti – artt. 572 e 609 bis c.p.

“Il racconto delle violenze sessuali successivo al momento della denuncia-querela, in caso di compresenza del reato di maltrattamenti, non inficia la credibilità e l’attendibilità della persona offesa quando il riserbo è dovuto al lungo rapporto costellato da maltrattamenti e alla speranza di ravvedimento del maltrattante”.

“La presenza di caratteristiche psicologiche della persona che inficiano la sua capacità di empatia e lettura del dissenso altrui non rileva per l’applicazione dell’art. 609 bis, III comma, (fatto di minore gravità), in quanto quest’ultimo può essere applicato solo quando, da una valutazione globale del fatto, questo risulti non grave”.

Nella sentenza Cass. pen., Sez. III (data ud. 22.05.2024), dep. 28.08.2024, n. 33211, la Corte è stata chiamata a giudicare il caso di un uomo condannato per i reati di cui agli artt. 572 e 609 bis commessi ai danni della convivente.

Nei motivi di ricorso la difesa dell’uomo lamenta violazione di legge e vizio della motivazione della sentenza di secondo grado in ordine alla mancata applicazione della fattispecie di minore gravità ai sensi dell’art. 609 bis, III comma, c.p. La difesa indica che gli episodi di abuso sessuale lamentati dalla persona offesa sono stati rappresentati solo nell’ integrazione della denuncia-querela, ma non sono mai stati descritti e riferiti né nelle querele antecedenti, né in quelle successive e neppure nel ricorso al Tribunale civile finalizzato all’ottenimento dell’affidamento dei figli. La difesa ha, inoltre, sottolineato che le dichiarazioni della persona offesa non sono state suffragate da alcun certificato medico né da riscontri testimoniali. La difesa infine suggerisce di valutare le caratteristiche psicologiche dell’imputato ai fini della determinazione della pena, in quanto persona con evidenti difficoltà a comprendere gli stati emotivi altrui.

La Corte ha rigettato i motivi del ricorso ed ha ritenuto che: “la circostanza che la parte offesa abbia ritirato le querele presentate nei confronti del compagno per i ripetuti abusi subiti, e che quindi abbia tenuto un atteggiamento, a detta del ricorrente, “altalenante”, lungi dall’essere sintomatica di un minor disvalore delle condotte imputate, trova fondamento nella comprensibile speranza di un ravvedimento dell’imputato il quale, dopo le ripetute denunce, si mostrava sempre pentito e disponibile a riprendere con maggiore serenità il rapporto familiare”.

Nel corso del procedimento di I e II grado è emersa l’abitudine dell’imputato, nel corso degli anni, di esigere dalla persona offesa, con minacce e violenze, rapporti sessuali anche di tipo anale, sempre a proprio piacimento, nonostante i dinieghi e il dolore fisico e morale provocato alla persona offesa. Pertanto, lo specifico riferimento, presente solo nella integrazione della denuncia, ai rapporti anali, lungi dallo sminuire la credibilità delle dichiarazioni della persona offesa o a ridimensionarne la gravità, è da ricondurre al comprensibile imbarazzo a far emergere tali odiose circostanze e al fatto che la donna era sempre mossa dall’esigenza di non pregiudicare la serenità dei figli minori.

Riprendendo un passo della sentenza del Tribunale di primo grado, i giudici hanno ritenuto che: “le caratteristiche psicologiche dell’imputato, ovvero la scarsa capacità comunicativa e relazionale che gli impediva di percepire il dissenso e il malessere della donna, e i deficit in ordine alla gestione degli stati emotivi, non possono giustificare sotto il profilo soggettivo la commissione dei reati di violenza sessuale o ridimensionare la gravità dei fatti per l’applicazione dell’art. 609 bis ultimo comma, c.p., considerando che le violenze sessuali si sono protratte per un lungo periodo di tempo, erano frequenti, e l’imputato era solito minacciare la compagna, anche sotto il profilo economico, maltrattarla e percuoterla anche in presenza dei figli minorenni”. Pertanto, il giudice di merito ha ritenuto di non dover valutare eventuali questioni psicologiche e l’incapacità di gestione dell’emotività dell’imputato, ritenendoli inidonei a giustificare l’atteggiamento di prevaricazione prolungato, a fronte di una chiara manifestazione di dissenso ai rapporti sessuali dolorosi. Il ricorso è stato, dunque, dichiarato inammissibile dalla Corte.

  • “Caso di minore gravità” nel reato di violenza sessuale – art. 609-bis, III comma, c.p.

“Ai fini del riconoscimento del caso di minore gravità di cui all’art. 609-bis, III comma, c.p., deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età. Ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità”.

Nella sentenza Cass. pen., Sez. III (data ud. 08.05.2024), dep. 26.08.2024, n. 33105, la Corte esamina il caso di un uomo condannato per i reati di cui agli artt. 81, 609-bis e 61 n. 5 e 11 c.p. commessi nell’ambulatorio medico in danno di due pazienti in occasione di una visita ginecologica. Nel primo episodio l’imputato, nel corso della visita ginecologica e durante l’ecografia transvaginale, si lasciava andare a commenti impropri aventi ad oggetto l’organo sessuale della donna e, poi, effettuava una penetrazione anale utilizzando le dita della mano. Nel secondo episodio l’imputato, nel corso di una ecografia interna finalizzata a valutare l’eventuale necessità di asportare un fibroma, dapprima applicava il gel ecografico non sulla sonda ma direttamente sulla vagina della paziente, facendone cadere una quantità dall’alto verso il basso simulando un gioco erotico e, poi, tentava più volte di penetrare con il dito l’ano della donna, senza riuscirsi per la resistenza opposta dalla stessa.

L’imputato ricorre in Cassazione e deduce la violazione dell’art. 609-bis, III comma c.p., e vizio di motivazione, lamentando che la Corte di appello ha escluso in maniera illogica l’applicazione della scriminante sulla base della circostanza che i fatti siano avvenuti durante l’esecuzione di una visita ginecologica. La difesa, in aggiunta, deduce che i fatti, così come riferiti dalle persone offese, non possono ricadere nell’ipotesi attenuata, né in generale nell’art. 609-bis, in quando mancherebbe l’elemento della costrizione delle persone offese.

La Corte di cassazione ha ritenuto il ricorso infondato. I giudici hanno ripreso la motivazione della Corte di appello la quale, all’esito della valutazione globale del fatto, ha escluso la ricorrenza dell’ipotesi attenuata di cui all’art. 609 bis, III comma, c.p., richiamando: “le modalità dell’azione (improvvise ed inaspettate), il contesto in cui erano avvenuti i fatti (durante l’effettuazione di una visita ginecologica) e l’elevatissimo grado di compressione della libertà sessuale (le persone offese erano state costrette a subire l’abuso in condizioni tali da non poter opporre resistenza preventiva)”.

La Corte ha affermato nuovamente che: “in tema di violenza sessuale, ai fini del riconoscimento della diminuente per i casi di minore gravità di cui all’art. 609-bis, III comma, c.p., deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità”.

La Corte ha evidenziato come il luogo in cui era avvenuto il fatto andasse correlato alla posizione delle vittime nel contesto della visita ambulatoriale (condizione fisica di totale esposizione degli organi genitali in un contesto di affidamento della paziente all’operato del medico, operato che si era trasformato, con azione improvvisa ed inaspettata, e per esclusiva scelta dell’imputato) quale condizione che aveva agevolato concretamente la commissione del reato.

  • Art. 609 bis e art. 609 quater – Atti sessuali con minorenne

“Anche in mancanza di un esplicito dissenso è possibile ricostruire la mancanza di consenso agli atti sessuali attraverso la lettura del contesto di riferimento. Nel caso di specie una bambina (>14) era costretta dalla madre e dal compagno di lei a prostituirsi e gli stessi gestivano i suoi appuntamenti. In questo caso, anche in mancanza di atti di disgusto o ribrezzo agli atti sessuali, è palese la mancanza di consenso e la costrizione della minore tale da configurare l’applicazione dell’art. 609 bis sulla violenza sessuale e le aggravanti del caso”.

Nella sentenza Cass. pen., Sez. III (data ud. 11.07.2024), dep. 21.08.2024, n. 32764, la Corte ha giudicato un caso in cui tre uomini sono stati condannati per il reato di cui all’art. 609 bis c.p. per aver costretto una bambina, minore degli anni quattordici, spinta dalla madre e dal di lei compagno a prostituirsi ricorrendo a percosse e violenza fisica anche con l’utilizzo di armi e quindi a subire contro la sua volontà atti sessuali di varia natura.

Avverso la sentenza ognuno degli imputati ha proposto ricorso per Cassazione. I tre ricorsi deducono tutti il vizio di violazione di legge della sentenza di secondo grado laddove applica l’articolo 609 bis con l’aggravante della minore età previsto dall’art. 609 ter. Secondo le difese mancherebbe l’elemento della consapevolezza della costrizione della minore alla prostituzione da parte dei familiari, come mancherebbe il dissenso agli atti non avendo mai la minore posto in essere atti di rifiuto o disgusto.

La Corte affronta la questione, comune a tutti i ricorsi, relativa alla qualificazione delle condotte in contestazione che le difese sostengono sussumibili nella fattispecie di cui all’art. 609 quater c.p. e non anche degli artt. 609 bis e 609 ter. La motivazione delle difese si basa sul fatto che non vi sarebbe alcuna partecipazione degli imputati agli atti di vessazione compiuti sulla bambina da parte della madre e del suo convivente per obbligarla a prostituirsi, ma, ancora più a monte, della consapevolezza da parte di costoro dei meccanismi costrittivi utilizzati dai suoi familiari, risultando per contro le prestazioni sessuali spontaneamente rese dalla minore che assecondava, senza mostrare alcun segno di rifiuto o ribrezzo, le loro richieste.

I giudici hanno indicato che: “quantunque le difese si ostinino a sottolineare l’assenza di manifestazioni di dissenso o di rifiuto da parte della minore, che aveva sempre spontaneamente reso le prestazioni richiestele, senza che nessuno di loro fosse a conoscenza delle preesistenti angherie cui era sottoposta dai familiari per spingerla a tali atti, è per contro dal contesto complessivo che emerge a tutto tondo la mancanza di consenso della vittima, configurante l’elemento costitutivo del reato ex art. 609 bis c.p.”.

Tutti gli imputati erano pienamente consapevoli del fatto che la prostituzione della minore era gestita e monitorata dalla madre e dal compagno di costei, tenuto conto che, al di là di quello che la bambina possa aver loro detto nel corso degli incontri sessuali, era con costoro che ognuno dei prevenuti si interfacciava per prendere accordi per gli appuntamenti e per pattuire il prezzo delle prestazioni richieste, e a volte anche per corrispondergli la somma concordata al termine della seduta, ove non versata direttamente alla persona offesa e che entrambi erano sempre presenti al momento dell’arrivo degli imputati nella casa familiare dove gli incontri si sarebbero svolti. La Corte ha pertanto rigettato tutti e tre i ricorsi.

  • Consenso – art. 609 bis, I comma, c.p.

“Ai fini dell’integrazione del fatto di reato della violenza sessuale costrittiva, rileva il dissenso della persona offesa – ossia la contraria volontà, espressa o tacita, esplicita o implicita, della persona costretta a compiere o a subire atti sessuali – e il dissenso, quale requisito (essenziale) implicito nella fattispecie rappresenta perciò un elemento costitutivo del reato di violenza sessuale”.

“Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, dunque, è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza della non chiara manifestazione di consenso da parte del soggetto passivo del reato al compimento degli atti sessuali a suo carico, essendo irrilevante, pertanto, l’errore sull’esistenza o meno dell’espressione del dissenso, anche ove questo non sia stato esplicitato, potendo semmai fondarsi il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo solamente nel caso in cui l’errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla parte offesa”.

Nella sentenza Cass. pen., Sez. III (data ud. 19.04.2024), dep. 08.08.2024, n. 32248, la Corte è stata chiamata ad esaminare un caso di un uomo condannato per il reato di cui all’art. 609-bis, III comma c.p. perché, con violenza, costringeva la persona offesa a subire atti sessuali consistiti in baci sulla bocca, nonché in toccamenti sul seno.

Tra i motivi del ricorso in Cassazione la difesa dell’imputato censura l’erronea applicazione della legge penale ed il connesso vizio di motivazione, relativamente agli art. 609 bis e 47 c.p. I giudici, infatti, nel focalizzare l’attenzione sulla ricerca della prova del dissenso della persona offesa e sull’attendibilità delle sue dichiarazioni, avrebbero omesso di confrontarsi con la mancata sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, nonché con la circostanza che, laddove il dissenso fosse provato, il dolo dell’imputato potesse essere viziato da un errore sul fatto. Dopo avere richiamato la giurisprudenza di legittimità in materia di errore sul dissenso – il cui onere probatorio pacificamente incombe sull’imputato – sostiene il ricorrente che, nel caso di specie, se nessun dissenso potrebbe certamente ritenersi sussistente rispetto al primo fatto di reato contestato, evidente sarebbe invece l’errore sul fatto nel secondo episodio in contestazione, allorché l’imputato avrebbe creduto consenziente la persona offesa sulla base di molteplici elementi, quali: a) il primo bacio che, mesi prima, costui aveva ritenuto contraccambiato; b) la serie di messaggi affettuosi che i due si sarebbero scambiati dopo quanto accaduto ad agosto; c) la circostanza che, anche dopo il primo episodio, la persona offesa avesse accettato addirittura di incontrarlo nuovamente nel suo ufficio, non dimostrando dunque alcun tipo di remora a rimanere sola con lui in un luogo privato. Secondo la difesa, pertanto, l’imputato si sarebbe potuto convincere della reciprocità di un interesse nutrito nei suoi confronti da parte della persona offesa; pertanto, nel caso di specie, stante la mancata esatta rappresentazione, da parte dell’imputato, della situazione di fatto (e di dissenso) nella quale egli stava muovendosi, non potrebbe ritenersi sussistente l’elemento soggettivo del reato.

La Corte ha ritenuto il ricorso infondato. I giudici in numerose precedenti decisioni hanno chiarito che: “ai fini dell’integrazione del fatto di reato di violenza sessuale costrittiva (art. 609 bis, I comma), rileva il dissenso della vittima – ossia la contraria volontà, espressa o tacita, esplicita o implicita, della persona costretta a compiere o a subire atti sessuali – e il dissenso, quale requisito (essenziale) implicito di fattispecie, rappresenta perciò un elemento costitutivo del reato di violenza sessuale”.

I giudici hanno ricordato che: “la norma sulla violenza sessuale non appartiene alla categoria di quelle in cui il dissenso del soggetto passivo è espressamente indicato come elemento della fattispecie, bensì è di quelle in cui l’interprete deve pervenire alla medesima conclusione, desumendola implicitamente dagli altri elementi espressamente richiesti per l’integrazione del fatto di reato, poiché la costrizione, in quanto attuazione del nesso eziologico tra la violenza o la minaccia e il compimento di atti sessuali, suppone necessariamente il dissenso di chi è costretto a compierli o a subirli. Ne consegue che il dissenso del soggetto passivo è un elemento costitutivo della fattispecie, necessario affinché esista la condotta tipica. Se manca il dissenso, vale a dire se vi è il consenso, non viene meno l’antigiuridicità, bensì manca la tipicità, con la conseguenza che il fatto non sussiste. Il dubbio sul dissenso è quindi un dubbio sulla sussistenza del fatto, non sull’esistenza di una causa di esclusione dell’antigiuridicità. Logica conseguenza di ciò è che, nel caso di errore sul fatto costitutivo del reato, e cioè sul dissenso, la circostanza che un soggetto abbia agito presupponendo una realtà diversa da quella effettiva non è rilevante se non risulta pienamente provata, e l’onere della prova o, quantomeno, l’onere di allegazione, (…) incombe sull’imputato. Egli deve evidenziare che un fatto, da lui percepito in un determinato modo, ha fatto sorgere in lui, nonostante l’uso della normale diligenza, la ragionevole certezza dell’esistenza del consenso. All’opposto, nel dubbio, l’agente deve astenersi dall’invadere la sfera sessuale altrui, potendo, come si è detto in precedenza, compiere atti sessuali solo in presenza della ragionevole certezza dell’esistenza del consenso; consenso che, tuttavia, deve essere inequivocabile, perché la sua esistenza dipende dalla chiara volontà dell’altra persona”.

Ne consegue che non rileva il fatto che, come riportato dalla difesa dell’imputato, non sia stato percepito il dissenso, ma è necessario che si abbia la ragionevole certezza che vi sia stato un consenso pieno, iniziale e permanente, al compimento dell’atto sessuale. I giudici sottolineano che: “ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, dunque, è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza della non chiara manifestazione di consenso da parte del soggetto passivo del reato al compimento degli atti sessuali a suo carico, essendo irrilevante, pertanto, l’errore sull’esistenza o meno dell’espressione del dissenso, anche ove questo non sia stato esplicitato, potendo semmai fondarsi il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo solamente nel caso in cui l’errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla parte offesa”.

Nel caso di specie, indica la Corte, già le due corti di merito ed appello hanno correttamente escluso che nel comportamento della persona offesa potesse essere ravvisabile, sulla base delle risultanze probatorie, alcuna espressione riconducibile alla volontà di compiere atti sessuali, riscontrando, all’opposto, diverse manifestazioni di dissenso, scritte e orali inequivocabili.

  • Elemento psicologico e valutazione del dissenso nel reato di violenza sessuale – art. 609 bis, I comma, c.p.

“Quando si tratta di violenza sessuale per costrizione, la violenza o la minaccia non devono necessariamente essere contestuali all’atto sessuale né perdurare per tutta la durata del rapporto sessuale, dall’inizio sino al congiungimento, essendo sufficiente che il rapporto non voluto sia consumato anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta”.

Nella sentenza Cass. pen., Sez. III (data ud. 09.01.2024), dep. 30.07.2024, n. 31106, la Corte ha giudicato il caso di un uomo condannato per il reato di cui all’art. 609 bis c.p., per aver costretto con violenza e minaccia la compagna convivente a subire un rapporto sessuale completo.

La difesa dell’imputato ricorre per cassazione deducendo violazione di legge e vizio della motivazione in ordine all’affermazione della responsabilità dell’uomo per carenza dell’elemento psicologico del dolo, vertendo l’imputato in una condizione di errore scusabile sul dissenso.

L’imputato è stato indotto in errore in ordine alla sussistenza del dissenso all’atto sessuale in quanto ingannato dalle parole di amore manifestate dalla compagna durante l’atto sessuale, la quale ha proferito le parole “ti amo”. Sebbene la persona offesa abbia dichiarato di aver detto tali parole d’amore solo in quanto dettate dalla paura e per mera finzione, ciò nonostante, nell’ottica della prova della sussistenza del dolo, il giudice di merito avrebbe dovuto considerare che tale comportamento, per quanto fittizio, ha tratto in inganno l’imputato impedendogli di percepire la reale volontà della compagna.

La Corte osserva che: “in tema di violenza sessuale, il dissenso della vittima costituisce un elemento costitutivo della fattispecie incriminatrice e, pertanto, il dubbio o l’erroneo convincimento della sua sussistenza investe la configurabilità del fatto – reato e non la verifica della presenza di una causa di giustificazione. Il dissenso, quale elemento oggettivo della fattispecie, deve vertere sugli atti sessuali. Sotto il profilo soggettivo del reato, la valutazione della coscienza e della volontà della condotta da parte del soggetto autore del delitto di violenza sessuale si manifesta innanzitutto nella consapevolezza del dissenso della persona offesa”.

I giudici continuano indicando che: “è irrilevante l’eventuale errore sull’espressione del dissenso anche ove questo non sia stato esplicitato dalla persona offesa, potendo semmai fondarsi il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo solamente nel caso in cui l’errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla parte offesa, purché, comunque, la parte che lamenta di essere in errore, alleghi elementi utili che consentano una verifica di tale assunto difensivo. E poiché la dimensione della sessualità non può ritenersi confinata ad una estrinsecazione soltanto fisica, involgendo al contrario anche la dimensione psichica, come quella emotiva, ne consegue che per la valutazione dell’atto, al fine di apprezzarne l’incidenza sulla libertà di autodeterminazione della persona offesa, si debba tener conto della condotta nel suo complesso, rapportandola cioè all’ambito specifico in cui si è svolta, alle modalità in cui si è in concreto estrinsecata, estese anche a quelle che l’hanno preceduta o seguita, al rapporto intercorrente fra i soggetti coinvolti e ad ogni altro dato fattuale che valga a connotarlo. Invero, allorquando si tratti, come nel caso di specie, di violenza sessuale per costrizione, la violenza o la minaccia non devono necessariamente essere contestuali all’atto sessuale né perdurare per tutta la durata del rapporto sessuale, dall’inizio sino al congiungimento, essendo sufficiente che il rapporto non voluto sia consumato anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta”.

La Corte ha perciò stabilito che dalla ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito emerge che gli atti sessuali siano stati preceduti da violenza e minaccia. Infatti, la dichiarazione di amore – che la persona offesa ammette di aver proferito – si è manifestata solo durante il rapporto sessuale, ma è stata preceduta da plurime, chiare e risolute manifestazioni di dissenso. L’iniziale esternazione del rifiuto da parte della donna priva di qualunque fondamento la tesi difensiva, sulla quale non incide la circostanza che poi la vittima abbia finito con il cedere alle pulsioni sessuali del compagno, assecondando le sue richieste per il timore delle sue violente reazioni. Per tutti questi motivi la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso.