Rassegna sul Reato di Atti persecutori, art. 612 bis c.p. (c.d. stalking). Aggiornamento a ottobre 2024
La rassegna riporta la giurisprudenza della Corte di cassazione sul reato di “Atti persecutori” (art. 612 bis c.p.). Le pronunce sono state selezionate tra le sentenze depositate tra maggio e settembre 2024 in materia, secondo un criterio di rilevanza e di interesse per i temi di ricerca dell’Osservatorio. La rassegna è stata redatta da Martina Millefiorini ed Elettra Coppola, con la supervisione delle avv. Ivonne Panfilo e Tatiana Montella.
- Differenza tra il reato Atti persecutori, art. 612 bis c.p, e reato di molestia o disturbo alle persone, art. 660 c.p.
“Il criterio distintivo tra i due reati non consiste tanto nella condotta dell’agente di reato, che può essere la medesima, bensì nel diverso atteggiarsi delle ‘conseguenze’ della condotta, sicché si configura il delitto di cui all’art. 612-bis c.p. solo qualora alle condotte molestatrici consegua uno degli eventi tipici del delitto di stalking (ovvero, come prevede l’articolo, le condotte siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita), mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 c.p. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato”.
Nella sentenza Cass. pen., Sez. III (data ud. 11.07.2024), dep. 21.08.2024, n. 32770, alla Corte si presenta un caso piuttosto complesso. Il Tribunale del riesame di Torino, annullava la misura disposta dal GIP in riferimento ai reati di violenza sessuale aggravata e atti persecutori, previa riqualificazione degli stessi in violazione dell’articolo 660 c.p. quale molestia e disturbo alle persone.
Avverso tale ordinanza hanno proposto ricorso sia il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino che l’indagato. Nel ricorso del Procuratore della Repubblica questo ha dedotto la violazione di legge e assenza di motivazione in ordine al reato di cui all’art. 609-bis c.p. evidenziando come l’ordinanza del Tribunale abbia declassato il reato contestato in quello di molestie senza operare distinzione alcuna sulla base di criteri oggettivi, bensì unicamente enfatizzando alcuni dati come quello ‘caratteriale’ (persona offesa come ‘soggetto espansivo’) e la provenienza ‘geografico’ (meridionale) dell’indagato per configurare il fatto come molestia ex art. 660 c.p. Inoltre, il ricorso del Procuratore contestava che l’ordinanza impugnata non operasse una vera analisi di contesto, omettendo di valorizzare circostanze fondamentali: il contesto accademico, e non certo amicale, in cui le condotte sono state perpetrate, la posizione di superiorità dell’imputato e la sua capacità di influenzare la vita lavorativa delle dottoresse ‘specializzande’; la totale assenza di un rapporto biunivoco di confidenza, preteso abusivamente dall’indagato ma mai concesso dalle persone offese; il fatto che le condotte fossero spesso poste in essere di fronte a medici strutturati e specializzandi maschi, a testimonianza della finalità di umiliazione delle condotte, che, seppure estranea al tipo legale, ne colora l’intensità del dolo. Con il terzo motivo del ricorso deduce vizio di motivazione in riferimento alla contestata accusa di atti persecutori, opponendosi all’ordinanza del Tribunale che esclude la sussistenza del reato ritenendo che le condotte non siano state ‘sistematicamente e preordinatamente persecutorie’, né in grado di alterare le abitudini di vita delle persone offese.
La Corte, in merito al ricorso ha stabilito che:
“- la condotta sanzionata dall’articolo 609-bis c.p. comprende qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, pur se ‘fugace’ ed ‘estemporaneo’ (‘repentino’), tra soggetto attivo e soggetto passivo del reato, ovvero in un coinvolgimento della sfera fisica di quest’ultimo, ponga in pericolo la libera autodeterminazione della persona offesa nella sfera sessuale. La valenza sessuale del contatto è indiscussa e indiscutibile ove si tratti di organi genitali o zone erogene (ivi comprese le labbra, sia della vittima che dell’agente di reato), mentre, negli altri casi, sarà frutto di un accertamento di fatto che tenga conto del contesto sociale e culturale in cui l’azione è stata realizzata, della sua incidenza sulla libertà sessuale della persona offesa, del contesto relazionale intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante;
– l’atto deve essere definito come ‘sessuale’ sul piano obiettivo, non su quello soggettivo delle intenzioni dell’agente. Se, perciò, il fine di concupiscenza non concorre a qualificare l’atto come sessuale, il fine ludico o di umiliazione della vittima non lo esclude.
– il delitto di violenza sessuale si esprime in forma tentata quando, pur in mancanza del contatto fisico tra imputato e persona offesa, la condotta tenuta dal primo si estrinseca nel compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere, con violenza o minaccia, il soggetto passivo a subire atti di valenza sessuale, accompagnato dal requisito soggettivo dell’intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale, e non la mera ‘tranquillità’ della stessa;
– il reato di molestia sessuale (art. 660 c.p.), è invece integrato solo in presenza di espressioni volgari a sfondo sessuale ovvero di atti di corteggiamento invasivo ed insistito diversi dall’abuso sessuale, ove lo ‘sfondo sessuale’ costituisce soltanto un motivo e non un elemento della condotta.”
La Corte, quindi, ha indicato che nel caso in esame e accogliendo il ricorso del Procuratore, la inusuale condotta dell’imputato, che si è lasciato andare, ripetutamente e con diversi soggetti, a toccamenti, baci e gesti posti in essere in un contesto (quello formativo/accademico) che non giustificava alcuna effusione di quel tipo, non poteva essere certamente giustificata o ridotta a meri gesti ‘inopportuni’ in considerazione di elementi squisitamente soggettivi, quali il ‘carattere estroverso’ o la ‘provenienza geografica’ dell’indagato.
In merito alla riqualificazione dei reati operata dal Tribunale, la Corte ha ribadito che: “con la locuzione ‘molestie sessuali’ la legislazione civilistica intende quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Sotto il profilo penalistico, dette molestie sessuali possono concretizzare il reato di molestie di cui all’articolo 660 c.p., ovvero di atti persecutori (o stalking) di cui all’articolo 612-bis c.p.
(Quindi) Il criterio distintivo tra i due reati non consiste tanto nella condotta dell’agente di reato, che può essere la medesima, bensì nel diverso atteggiarsi delle ‘conseguenze’ della condotta, sicché si configura il delitto di cui all’art. 612-bis c.p. solo qualora alle condotte molestatrici acceda uno degli eventi tipici del delitto di stalking (ad esempio, quando le condotte siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l’alterazione delle proprie abitudini di vita), mentre sussiste il reato di cui all’art. 660 c.p. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato”.
La Corte, accogliendo il ricorso del Procuratore ha stabilito che il giudice del rinvio debba valutare la presenza di fatti idonei a rientrare nella fattispecie ex art. 609-bis c.p., ovvero di violenza sessuale subita da alcune delle persone denuncianti. Inoltre, dovrà valutare caso per caso la possibilità di applicazione dell’art. 612-bis c.p. ovvero atti persecutori, quando si sia in presenza di abitualità nelle condotte e della costrizione al mutamento delle abitudini di vita o, in alternativa, in caso di semplice ‘fastidio’ avvenuto singole volte, ad applicare l’art. 660 c.p., che ivi acquisisce il valore di molestia sessuale.
Dai fatti emerge che il giudice di prime cure non abbia ben inquadrato il rapporto che legava l’imputato alle specializzande; lo specifico contesto, che era non soltanto lavorativo, ma anche gerarchico e di formazione, in cui l’indagato ricopriva innegabilmente un ruolo sovraordinato, in grado di incidere sul percorso scolastico e dunque sul futuro delle destinatarie delle sue attenzioni, le quali, proprio per questo, si trovavano in una situazione di oggettiva difficoltà a ribellarsi o comunque a reagire come avrebbero fatto al di fuori di quell’ambiente e nei confronti di un uomo che non fosse stato il loro ‘Professore’. Alcune ragazze erano, infatti, costrette ‘a trovare sotterfugi ed escamotage’ per minimizzare le eventualità che tutto questo si ripetesse. La Corte ritiene che si configuri, quindi, anche l’evento degli atti persecutori, essendo innegabile che le persone offese, a causa dei comportamenti dell’imputato e delle conseguenti ripercussioni psicologiche, avessero modificato le abitudini di vita, come non entrare più da sole nel suo ufficio, preferendo farsi accompagnare dai colleghi di sesso maschile, evitare il più possibile di intrattenersi in ospedale fino a tarda ora con lui, proprio per non esporsi a condotte simili, e porre attenzione all’abbigliamento, in modo da non dare adito ai commenti sgraditi.
- Il dolo nel reato di Atti persecutori – art. 612-bis c.p.
“Nel delitto di atti persecutori l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione”.
Nella sentenza, Cass. pen., Sez. feriale (data ud. 08.08.2024), dep. 09.08.2024, n. 32376, l’imputato era stato condannato per il delitto di cui all’art. 612-bis c.p. commesso in danno dell’ex convivente. L’imputato ha proposto ricorso per cassazione, lamentando che la sentenza impugnata avrebbe ritenuto integrato il dolo assumendo, erroneamente, che non sarebbe stato a tal fine indispensabile che il soggetto agente voglia cagionare turbamento nella persona che subisce la sua condotta, né che le minacce non abbiano avuto seguito. A quest’ultimo riguardo egli, negli scritti difensivi, sottolinea che avrebbe dovuto essere considerato che egli, pur abitando a soli 500 metri di distanza dal domicilio dell’ex convivente, non avrebbe mai posto in essere condotte violente in danno della stessa.
La Corte ha ritenuto che il motivo sia manifestamente infondato ed ha indicato come giusta la decisione impugnata che non da rilievo alle circostanze addotte dal ricorrente, il quale ha indicato che non si sarebbe reso conto del tenore gravemente minaccioso dei propri messaggi e che poi non avrebbe dato effettivo corso alle stesse, ovvero non avrebbe commesso veri atti di violenza nei confronti dell’ex convivente. I giudici sostengono che la corte di prime cure abbia fatto corretta applicazione del principio in virtù del quale: “nel delitto di atti persecutori l’elemento soggettivo è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione”.
• Atti persecutori e tentativo di violenza sessuale – artt. 612-bis e 609-bis c.p.
“La Corte, secondo consolidato orientamento, ritiene che sia configurabile il tentativo di violenza sessuale quando, pur in mancanza del contatto fisico tra imputato e persona offesa, la condotta tenuta dal primo denoti il requisito soggettivo dell’intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale”.
Nella sentenza, Cass. pen., Sez. III (data ud. 27.06.2024), dep. 07.08.2024, n. 32133, la Corte ha esaminato un caso di un uomo colpevole dei delitti di cui agli artt. 609-bis e 612-bis c.p. L’imputato ha proposto ricorso per Cassazione. La difesa ha sostenuto che la condotta posta in essere dall’imputato integrerebbe una tipica ipotesi di violenza privata dal momento che non vi è stato alcun atto sessuale punibile ai sensi dell’articolo 609-bis c.p. Inoltre, la difesa lamenta la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla commisurazione della pena che, ad avviso della difesa, non troverebbe giustificazione né nell’esistenza dei precedenti penali dell’imputato, perché risalenti nel tempo e di diversa natura rispetto al reato per il quale vi è stata condanna, né nelle modalità di commissione del tentativo di violenza sessuale che, nella prospettazione difensiva, non sarebbe stata ‘oltremodo insidiosa’ per la persona offesa.
La Corte, nel ritenere il primo motivo infondato, ha avvalorato quanto stabilito già dalla Corte d’Appello, ovvero che l’imputato aveva minacciato la persona offesa di mostrare al marito e di divulgare pubblicamente i filmati e le foto ritraenti la donna in intimità con l’uomo con il quale, anni addietro, aveva intrattenuto una relazione extraconiugale; ha quindi posto in essere atti idonei e diretti in modo non equivoco a costringere la donna, altrimenti non consenziente, ad avere con lui rapporti sessuali. I giudici hanno evidenziato che la condotta tenuta dall’imputato è stata sorretta, dal punto di vista soggettivo, dalla finalità di congiungersi con la donna e si estrinsecata, dal punto di vista oggettivo, nella violazione della libertà di autodeterminazione sessuale della donna.
La Corte, quindi, ha ritenuto che: “secondo consolidato orientamento, è configurabile il tentativo di violenza sessuale quando, pur in mancanza del contatto fisico tra imputato e persona offesa, la condotta tenuta dal primo denoti il requisito soggettivo dell’intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale”.
La Corte ha, inoltre, chiarito che “nel caso in cui il delitto di violenza sessuale si fermi allo stadio del tentativo in assenza del contatto fisico dell’imputato con la persona offesa, la prova della finalità di soddisfacimento dell’impulso sessuale può essere desunta da elementi esterni alla condotta atipica. Correttamente, dunque, la Corte d’Appello ha ravvisato nella condotta tenuta dall’imputato i requisiti di idoneità e univocità ad appagare i propri istinti sessuali mediante la violazione della libertà di autodeterminazione della persona offesa”. Per i motivi esposti la Corte ha rigettato il ricorso.
• Remissione della querela e Atti persecutori – art. 612 bis c.p.
“È idonea ad estinguere il reato la remissione di querela ricevuta dall’autorità giudiziaria, ma anche quella effettuata davanti ad un ufficiale di polizia giudiziaria, atteso che l’art. 612-bis, IV comma c.p., facendo riferimento alla remissione ‘processuale’, evoca la disciplina risultante dal combinato disposto dagli artt. 152 c.p. e 340 c.p.p, che prevede la possibilità effettuare la remissione anche con tali modalità”.
Con la sentenza Cass. pen., Sez. V, (data ud. 26.06.2024), dep. 06.08.2024, n. 32097, la Corte è stata chiamata a giudicare un caso in cui il Tribunale del Riesame di Palermo, previa riqualificazione del delitto da quello contestato di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) a quello di cui all’art. 612-bis, I e II comma, c.p. applicava all’imputato la misura cautelare degli arresti domiciliari. L’indagato ha proposto ricorso per cassazione assumendo che il Tribunale del Riesame ha erroneamente riqualificato il delitto in quello di cui all’art. 612-bis c.p. a fronte dell’espressa dichiarazione della persona offesa al momento della presentazione della querela di non aver mai temuto per la propria incolumità. Il difensore del ricorrente aveva depositato documentazione attestante la remissione della querela da parte della persona offesa, effettuata da quest’ultima mediante il proprio difensore e poi inviata da questo alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trapani.
Rispetto alla querela, la Corte ha però sottolineato che “l’art. 612-bis, IV comma, c.p. stabilisce espressamente che la remissione della querela può essere soltanto processuale”. Nella giurisprudenza di legittimità è stato riconosciuto che: “è idonea ad estinguere il reato non solo la remissione di querela ricevuta dall’autorità giudiziaria, ma anche quella effettuata davanti ad un ufficiale di polizia giudiziaria, atteso che l’art. 612-bis, IV comma, c.p. facendo riferimento alla remissione ‘processuale’, evoca la disciplina risultante dal combinato disposto dagli artt. 152 c.p. e 340 c.p.p. che prevede la possibilità di effettuare la remissione anche con tali modalità”.
Ad ogni modo, come indicato dai giudici, la disciplina non si applica nella fattispecie in esame, nella quale la querela è stata rimessa dalla persona offesa semplicemente attraverso il proprio legale, limitandosi ad effettuare una comunicazione successiva alla Procura della Repubblica, comunicazione che non è assimilabile in alcun modo ad una vera remissione della querela compiuta dinanzi all’autorità giudiziaria.
La Corte ha ritenuto il motivo del ricorso inammissibile e la remissione della querela invalida non solo perché non rispetta i motivi formali, ma perché non considera la situazione della persona offesa nel suo complesso, la quale ha riferito di aver vissuto per mesi in un continuo stato di ansia e tensione che le ha fatto temere per la sua incolumità al punto da aver presentato in ritardo, proprio in ragione di tale timore, la denuncia.