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Corte Costituzionale e “terzo genere” anagrafico: una recente pronuncia

Il commento è stato scritto da Edoardo Messineo, assegnista di ricerca in Metodologia della scienza giuridica, Università LUISS Guido Carli (Roma).

ESTREMI DELLA SENTENZA:

Corte Costituzionale, 23 luglio 2024, n.143

Presidente: Barbera

Redattore: Petitti

Norme impugnate: Art. 1 della legge, 14 aprile 1982, n.164 e art. 31, c.4, del decreto legislativo, 1 settembre 2011, n. 150

Con la sentenza in esame, la Corte Costituzionale ha affrontato la questione di costituzionalità relativa a due norme del nostro ordinamento e specificamente l’ art. 1 della legge, 14 aprile 1982, n.164 e l’art. 31, c.4, del decreto legislativo, 1 settembre 2011, n. 150. Quanto alla suscettibilità della prima norma di essere incompatibile con il dettato costituzionale, la Consulta ne ha dichiarato l’inammissibilità; quanto alla seconda, il Collegio ha invece optato per una pronuncia di accoglimento dichiarando dunque l’incostituzionalità del precetto normativo.

In particolare il caso origina dalla vicenda riguardante una persona transgender assegnata alla nascita al sesso anagrafico femminile, la quale, nel procedimento inerente l’autorizzazione all’adeguamento dei caratteri sessuali attraverso intervento medico-chirurgico e alla rettificazione anagrafica del sesso, chiedeva al giudice di prime cure che la detta rettificazione avvenisse nel senso di essere indicata con un marcatore di genere che la qualificasse quale “genere terzo”; questo poichè la parte ricorrente non si identificava né nel genere femminile né nel genere maschile, bensì in un genere non binario, con inclinazione verso la componente maschile.

Il Tribunale di Bolzano, quale giudice a quo, con l’ordinanza, 12 gennaio 2024, n.11, riteneva che la questione relativa alla legittimità costituzionale dell’art. 1 della l. 164 del 1982, ovvero la possibilità di inserimento di un “genere terzo”, unitamente a quella relativa alla necessaria autorizzazione di un giudice al trattamento chirurgico previsto dall’art. 31, co. 4, D.lgs.n. 150 del 2011, avessero i caratteri della rilevanza e della non manifesta infondatezza e andassero sottoposte al Giudice delle leggi. La valutazione di incostituzionalità, quanto alla prima questione, si appunta sulla incompatibilità con gli art. 2, 32 e 117 Cost. in relazione all’art 8 della CEDU e questo in quanto le norme vigenti non prevedono che con la sentenza di rettificazione dell’attribuzione del sesso possa essere assegnato “un sesso altro”, diverso da quello maschile o femminile. Quanto alla seconda questione, il giudice remittente dubita «della ragionevolezza del regime autorizzatorio previsto dalla normativa censurata, la quale impone un apprezzamento di natura giudiziale sulla necessità dell’intervento chirurgico che dovrebbe, per contro, essere demandato in via esclusiva ad una valutazione di natura medica e psicologica»; il parametro costituzionale è quindi identificato negli art. 2, 3 e 32 Cost.

Si evidenzia che il giudizio costituzionale si è svolto con la presenza dell’Osservatorio nazionale sull’identità di genere (ONIG), di Rete Lenford-Avvocatura per i diritti LGBTI+ e il Centro studi Livatino, che hanno avuto la possibilità, nella veste di amici curiae, di sottoporre alla Corte le proprie opinioni. Le prime due associazioni hanno sottolineato gli esiti di indagini sociologiche e medico/scientifiche sulla condizione negativa delle persone non binarie all’interno dell’ordinamento italiano, rimarcando, con specifico riferimento alla norma che disciplina il procedimento autorizzatorio al trattamento medico, la sua contrarietà al diritto della persona alla propria autodeterminazione terapeutica, enfatizzando in sostanza «il primato della scienza sul diritto». (punto 4.1. della sentenza in commento)

Dal canto suo il Centro Studi Livatino ha sottolineato come «l’accoglimento delle questioni sollevate dal tribunale di Bolzano sovvertirebbero il bilanciamento legislativo tra il diritto all’identità delle persone con disforia di genere e l’interesse pubblico all’attribuzione del sesso su base biologica».

È intervenuta l’Avvocatura generale dello Stato la quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili e infondate. Quanto alla prima questione l’inammissibilità deriverebbe dalla «carattere creativo del petitum eccedente rispetto ai poteri della Corte Costituzionale, implicando scelte affidate alla discrezionalità politica del legislatore». Inoltre, il Difensore dello Stato sottolinea che le questioni «darebbero per scontate risultanze scientifiche, come l’esistenza di un sesso diverso da quello maschile e femminile, sulle quali invece la comunità scientifica è ben lontana dall’aver raggiunto un consenso e un’opinione pienamente condivisa». Si rileva, infine, che una tale questione non dovrebbe essere affrontata come la contigua questione che riguarda la condizione delle persone intersessuali, che deve essere considerata diversamente. Quanto poi alla seconda questione l’Avvocatura sottolinea che l’autorizzazione al trattamento sanitario sarebbe giustificata, rispetto agli altri trattamenti terapeutici, in forza del fatto che il detto intervento sarebbe influente sullo stato civile della persona e dunque «sarebbe del tutto ragionevole affidare al giudice un vaglio ultimo sull’effettiva appropriatezza dell’intervento chirurgico, nell’ambito di una valutazione complessiva , che non si limita al solo aspetto medico, ma determina rilevanti conseguenze sociali». (punto 2.4. della sentenza in commento)

Se questo è il quadro delle argomentazioni sottoposte a giudizio della Corte, quest’ultima ha affrontato i due aspetti come questioni autonome fin dalla prima parte della sentenza e nel “considerato in diritto”.

Quanto alla prima questione il Giudice, all’esito di un percorso interpretativo che passa in rassegna non solo i suoi dicta ma le istanze di riconoscimento di un “genere terzo” che provengono dal quadro degli ordinamenti dell’Unione Europea, ritiene la questione inammissibile, come si è detto, pur evidenziandosi «un problema dal tono costituzionale», sulla base del fatto che l’introduzione di un genere terzo, avendo un impatto generale sul nostro sistema normativo, informato ad una logica di genere binaria, postula la necessità di un intervento legislativo di sistema.

Come avvenuto in altre occasioni (ci si riferisce per esempio al caso della gestazione per altri, Corte Cost., 9 marzo 2021, n.33) di fronte a soluzioni normative “creative” la Corte arretra lasciando spazio al potere legislativo, considerato come primo interprete (sebbene non esclusivo) della sensibilità sociale.

Eppure il pronunciamento in relazione a questo punto si fa interprete della realtà sociale quanto meno quando afferma, da una parte, che «la percezione dell’individuo di non appartenere né al genere femminile, né a quello maschile – da cui nasce l’esigenza di essere riconosciuto in una identità altra – genera una situazione di disagio significativa rispetto al principio personalistico cui l’ordinamento costituzionale riconosce centralità […] (tale per cui) questa condizione può del pari sollevare un tema di rispetto della dignità sociale e di tutela della salute alla luce degli art. 3 e 32 Cost.», dall’altra, quando afferma che la questione «non riguarda il tema – contiguo ma diverso – dell’intersessualità, la quale concerne ipotesi in cui, per ermafroditismo o alterazioni cromosomiche, lo stesso sesso biologico risulti incerto alla nascita». In sostanza confermando, quanto a quest’ultimo aspetto, gli intendimenti dell’Avvocatura generale dello Stato.

Quanto alla seconda questione il giudice delle leggi appunta la valutazione di incostituzionalità dell’art. 31, co.4, d.lgs. n. 150 del 2011 in relazione al quadro normativo come ricostruito alla luce della sentenza della Corte di Cassazione, Sez. I, 20 luglio 2015, n. 15138 e Corte Cost., 21 ottobre 2105, n. 221. Quest’ultimo pronunciamento in particolare aveva «escluso che le modificazioni dei caratteri sessuali richieste agli effetti della rettificazione anagrafica debbano necessariamente includere un trattamento chirurgico di adeguamento, quest’ultimo essendo soltanto un “possibile mezzo”, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico».

Ed infatti se prima del 2015, afferma la Corte, l’autorizzazione all’intervento poteva essere valutata come misura certamente non priva «di tratti paternalistici, rispetto a persone maggiorenni e capaci di autodeterminarsi» (punto 6.2), ma comunque come una forma di cautela, al momento dell’entrata in vigore della l. 164 del 1982, non «manifestamente irragionevole, e quindi esorbitante dalla sfera della discrezionalità legislativa, considerata l’entità e la irreversibilità delle conseguenze prodotte sul corpo del paziente da simili interventi chirurgici»; oggi di converso, proprio in relazione al cammino giurisprudenziale segnalato, il regime autorizzatorio confligge, in quanto non vi corrisponderebbe più, con la ratio legis della normativa per come modificata dagli interventi della Corte di cassazione.

In conclusione il pronunciamento si lascia apprezzare nella dimensione in cui sostanzialmente fa proprio un approccio personalistico; rimangono tuttavia certamente non privi di rilievo problematico due aspetti centrali: il primo è la limitazione della riflessione della Corte, che esclude, come si è detto, la condizione delle persone intersessuali; il secondo è quello del rapporto fra scienza e diritto, su cui hanno insistito anche le opinioni degli amici curiae, e che sembra conformato, nella sentenza, verso la prevalenza che un certo tipo di valutazioni scientifiche potrebbe avere sulla costruzione stessa della regola giuridica.

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