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Miti dello stupro e ingiustizie ermeneutiche nell’assunzione della prova dibattimentale

Il post è stato scritto da Eleonora Volta, dottoranda presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, Scienze Filosofiche.

Indice: Introduzione/ 1. I miti dello stupro fra norma e prassi applicativa /2. I miti dello stupro in aula di udienza: un esempio/ 3. Verso una giustizia ermeneutica

Introduzione

Fra i contributi dell’epistemologia femminista vi è stato quello di mostrare come, quando si parla di conoscenza, le donne vengano escluse in vari modi. Come oggetti di conoscenza, le donne sono escluse quando le loro vite vengono trascurate nella storia; quando il loro piacere sessuale viene oscurato dai valori ideologici della penetrazione eterosessuale procreativa[1]; quando gli economisti studiano le relazioni fra capitale e lavoro ignorando il lavoro di cura; o ancora, quando nelle teorie filosofiche ‘il femminile’ viene relegato al di fuori degli spazi della ragione (Lloyd 1984). Come soggetti di conoscenza, le donne sono escluse se vengono private degli strumenti per conoscere e per sapere di conoscere, così come del potere di produrre e diffondere risorse epistemiche che illuminerebbero aree significative dell’esperienza sociale che è nel loro interesse comprendere e vedere collettivamente riconosciute. Interessandosi agli effetti delle varie forme di dominio sociale sulla produzione e sulla diffusione del sapere, Miranda Fricker definisce questo secondo tipo di esclusione in termini di ingiustizia ermeneutica (Fricker 2007).

L’ingiustizia ermeneutica si verifica quando un collettivo o una società non dispone dei concetti necessari per interpretare le esperienze di quelli tra i suoi membri che fanno parte di gruppi svantaggiati o marginalizzati (2007:158). Questa carenza sarebbe dovuta al fatto che la produzione dei concetti e dei tropi interpretativi utilizzati per dare un senso a esperienze socialmente rilevanti è stata condotta principalmente dai gruppi dominanti, e sistematicamente negata ad altri (2007:6)[2]. Si pensi, ad esempio, ai concetti di sessismo, misoginia, omofobia, transfobia, introdotti nelle risorse ermeneutiche collettive dopo decenni di lotte per illuminare normativamente discriminazioni e crimini d’odio a lungo oscurati da interessi e valori dominanti[3]. E si pensi al concetto di molestia sessuale, la cui mancanza nel discorso pubblico e istituzionale ha a lungo impedito di denunciare un’ampia gamma di condotte violente e intimidatorie (Fricker 2007:149). La condizione di marginalizzazione ermeneutica descritta da Fricker è stata ampiamente evidenziata dai lavori di donne appartenenti a gruppi discriminati su basi razziali, le quali hanno mostrato come sessismo e razzismo abbiano loro impedito di disporre del linguaggio e dei concetti necessari per fare presa sul mondo sociale, e cambiarlo secondo criteri diversi da quelli che hanno condotto all’oblio delle loro esistenze (cfr. p. es. Lugones e Spelman 1983). Lo spicchio di mondo sociale che qui mi interessa indagare riguarda la legge in materia di violenza sessuale e la sua applicazione nel contesto italiano.

Come è stato osservato da diverse autrici, nell’ambito del diritto che attiene il campo della sfera sessuale è possibile osservare la presenza di linguaggi e concetti nient’affatto neutrali che normano il corpo e la sessualità preservando i valori patriarcali (cfr. p. es. Graziosi 1993; Virgilio 1996; Pitch 1998; Di Nicola Travaglini e Menditto 2020). Si tratta di dispositivi simbolici che tracciano una storia di esclusione delle prospettive delle donne dal diritto – dalla sua produzione, interpretazione e applicazione – e che propongo qui di analizzare da una prospettiva epistemologica. Mentre il lavoro di Fricker offre una lente teorica per individuare le lacune concettuali prodotte dai sistemi di esclusione epistemica, teorie più recenti hanno mostrato che l’ingiustizia ermeneutica può anche sorgere a causa di concetti distorsivi di natura fallace o difettosa che, operando nell’immaginario collettivo, preservano l’ignoranza di cui beneficiano i gruppi sociali dominanti a discapito di quelli oppressi e marginalizzati (Mason 2011; Jenkins 2017; Falbo 2022). In questa sede, guardo all’applicazione della legge sulla violenza sessuale prendendo in analisi una famiglia di concetti distorsivi in particolare, chiamati miti dello stupro.

Nel §1 definisco i miti dello stupro portando alcuni esempi che ne mostrano la presenza entro la norma scritta e la prassi applicativa. Nel §2 prendo in esame un recente procedimento penale per violenza sessuale e maltrattamenti contro familiari focalizzandomi sull’accertamento dibattimentale. Il fine è quello di mostrare il modo in cui i miti dello stupro intrattenuti da chi giudica possono alterare l’assunzione della prova testimoniale della persona offesa, costituendo – come andrò a sostenere – una forma di ingiustizia ermeneutica.

  1. I miti dello stupro fra norma e prassi applicativa

I miti dello stupro sono concetti pregiudiziali, stereotipati e fallaci che negano, sminuiscono o giustificano la violenza sessuale (cfr. Burt 1980; Temkin 2010). Tali concetti – che possono essere codificati dal soggetto come credenze o essere assorbiti a livello sub-doxastico – riguardano il corpo, la sessualità e, ovviamente, la violenza sessuale[4]. Ma riguardano anche le aspettative sociali che dovremmo avere rispetto a chi compie e a chi subisce la violenza in questione[5]. In questo senso, i miti dello stupro hanno valore prescrittivo: obbedendo alla logica misogina e patriarcale ad essi sottesa, ci dicono quali sono le persone e le circostanze adeguate affinché un atto di violenza sessuale possa contare come tale. Si tratta quindi di rappresentazioni illusorie della violenza sessuale, che, come gli stereotipi, incarnano una generalizzazione empirica inaffidabile – quando non palesemente falsa – sull’oggetto che descrivono (cfr. Temkin 2010). E, al tempo stesso, si tratta di strumenti semantici che normano la violenza sessuale rafforzando gerarchie di potere reali. Vediamo qualche esempio.

Fra i miti dello stupro più antichi, troviamo quello espresso dal motto ovidiano “vis grata puellae. Come noto, Ovidio nell’Ars amatoria invita a non rinunciare al corteggiamento di una giovane donna che sembra resistere, dal momento che la sua opposizione è in realtà un invito a insistere nel tentativo di ‘conquista’. Da qui deriva l’argomento secondo cui «la violenza è gradita alle donne» («vis grata puellae»), tradizionalmente adottato in dottrina e in giurisprudenza per presentare come resistenze simulate e finte riluttanze il dissenso della persona offesa (cfr. Padovani 1996:7; Virgilio 1997:66). A questo mito se ne legano altri, fra cui quello secondo cui la violenza sessuale implica sempre una forza fisica soverchiante, che la persona aggredita deve resistere in tutti i modi. Se «la violenza è gradita alle donne», allora ad essere oggetto di presunzione è il consenso all’atto sessuale, che può essere smentito da un’unica prova: la strenua resistenza della persona abusata. La logica che impone alla donna un onere di resistenza è legata a sua volta ad altri precetti che codificano la sua resistenza alla violenza sessuale quale difesa di beni sovraindividuali (l’onore, la verginità, la famiglia, il matrimonio, la morale pubblica). Questa logica si è tradotta in diritto nella scelta del legislatore di incentrare il reato di violenza sessuale sul concetto di costrizione mediante forza fisica, e di calarlo fra quelli contro la morale pubblica e il buon costume. Guardando a un passato non troppo remoto, si consideri il Codice Rocco del 1930, che, come la norma oggi vigente, impostava il reato di «violenza carnale» (oggi «violenza sessuale») sulla modalità di violenza e minaccia della condotta (si veda ex art. 519 c.p.). Come osserva Maria Virgilio,

Nella sua visione patriarcale c’era una scissione totale fra corpo e mente di donna, giacché il corpo della donna era ipotizzato come proprietà di un uomo, padre, marito, ed era concepito come oggetto di scambio tra uomini; infatti, la donna aveva statutariamente come destinazione un uomo, cioè il matrimonio; lo dimostra il fatto che la pena per il ratto a fine di libidine era aggravata in caso di donna coniugata. Inoltre, il ratto a fine di libidine era più gravemente punito di quello a fine di matrimonio: la presa di possesso su una donna ha delle regole e chi le rispetta deve pur essere premiato! (Virgilio 1996:163).

E ancora, nel Codice Rocco, il corpo femminile viene parcellizzato secondo parametri che qualificano come più grave la penetrazione, e come meno gravi o irrilevanti contatti intimi che non la implicano. Ciò era espresso nella distinzione – rilevante ai fini dell’entità della pena – fra «congiunzione carnale» da un lato e «atti di libidine violenti» dall’altra, distinzione prodotta da una concezione moralistica dello stupro incentrata sull’originario precetto della verginità e orientata a tutelare la libertà sessuale solo nel quadro della più generale tutela della «moralità pubblica e il buon costume» (Cadoppi 1996:25)[6]. Vale la pena di notare che entrambe le fattispecie vengono caratterizzate con riferimento alla «concupiscenza» dell’autore del reato e alle sue pulsioni, coerentemente con il mito secondo cui la violenza sessuale è un delitto passionale mosso da ragioni biologiche riconducibili alla ‘natura’ virile del soggetto imputato (Di Nicola e Menditto 2020:212,23). Da questa prospettiva, è rilevante verificare se vi sia stata penetrazione, e «quanta», mentre è del tutto trascurabile il grado di offesa e umiliazione subita dalla parte offesa (Virgilio 1987:44).

Un altro mito dello stupro (questa volta implicitamente) presente nel testo del Codice Rocco è quello secondo cui non è possibile perpetrare una violenza sessuale ai danni della moglie o della prostituta. Ben prima del Codice Rocco, la logica di necessaria finalità riproduttiva della sessualità aveva per lungo tempo fatto sì che in giurisprudenza la violenza sessuale fra coniugi o nei confronti della prostituta non si configurasse mai, sulla base di una implicita concezione del loro corpo «come per definizione disponibile e in proprietà reificata di un uomo o di tutti gli uomini» (Virgilio 1996:163). Basti pensare che l’affermazione della punibilità dello stupro commesso «ai danni della prostituta» è stata espressa solo verso la fine degli anni Sessanta (si veda Cass. pen., 16 dicembre 1966, in Cass. pen. mass., 1967, 1145), mentre fino al 1981 era ancora possibile estinguere il reato di «violenza carnale» prendendo in moglie la persona abusata[7]. Analizzati alcuni dei miti dello stupro fondanti norme oggi abrogate, passiamo ora al presente.

Come noto, con la l.15 febbraio 1996, n. 66 è stato introdotto il delitto di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis. Il delitto è collocato fra quelli «contro la persona», nel Capo III concernente i Delitti contro la libertà individuale. Si tratta di una svolta culturale che definisce un nuovo assetto assiologico: il bene giuridico protetto non è più la morale pubblica, il buon costume, l’ordine familiare, ma piuttosto l’autodeterminazione della persona nella propria sfera sessuale, nell’integrità morale e fisica, nella dignità umana (Di Nicola e Menditto 2020:217). A questa nuova collocazione si accompagna la scelta di unificare le condotte di congiunzione carnale e atti di libidine violente sotto la nozione di «atto sessuale» – elemento normativo extra-giuridico che rimanda per la sua definizione alle scienze antropologiche, sociologiche e psicologiche (Fiandaca 1998). Se il bene giuridico protetto è rappresentato dall’autodeterminazione della persona nella propria sfera sessuale, allora la qualità dell’atto diviene irrilevante, mentre acquisisce centralità la sfera sessuale della persona offesa – la quale non può essere violata da qualsiasi condotta incida sulla sua intimità e sia contraria alla sua volontà (Ibid.).

La scelta di prevedere un’unica fattispecie penale aveva fra le finalità anche quella di ridurre il rischio di vittimizzazione secondaria processuale. Si riteneva infatti che abbandonando ogni riferimento alla congiunzione carnale, si sarebbe riusciti a prevenire le approfondite indagini dibattimentali che prima del 1996 erano dirette a stabilire, nell’ottica della qualificazione del fatto tra le due fattispecie, se vi fosse stata o meno penetrazione (Virgilio 1997:76). Tuttavia, vale la pena di notare che, come è stato osservato ancora prima che entrasse in vigore la norma, «la concentrazione delle due condotte in un’unica definizione non elimina, ma soltanto sposta, ai fini della determinazione della concreta gravità del reato, il problema connesso con il delicato accertamento probatorio» (Romano 1989:65). E su questo avremo modo di tornare fra un istante (si veda §2).

Se da un lato la norma attualmente vigente ha segnato un effettivo cambiamento di prospettiva nel sistema valutativo di acquisizione della prova, dall’altro lato ha mantenuto la scelta di imperniare la condotta incriminata sugli elementi della violenza e della minaccia quali mezzi tipici di coercizione al rapporto sessuale. Secondo alcuni, questa scelta avrebbe implicitamente lasciato sopravvivere il tradizionale onere di resistenza, il quale abbiamo visto riposare a sua volta sull’assunto che sia il consenso, e non il dissenso, a dover essere presunto (Cfr. Colli 1997; Virgilio 1997; Pitch 1998). In effetti, se guardiamo alla prassi applicativa, non è insolito imbattersi in sentenze di primo e di secondo grado in cui viene imposto un modello univoco di reazione della vittima, che, per essere riconosciuta tale, deve provare di avere reagito opponendo resistenza fisica; di avere espresso inequivocabilmente il proprio dissenso; di avere tentato la fuga, urlato, pianto, chiesto aiuto, e così via (cfr. p. es. Di Nicola e Menditto 2020; Canevini 2022). E ciò avviene nonostante la giurisprudenza abbia ampiamente superato il paradigma dell’onere di resistenza, assestandosi su una definizione di violenza sessuale basata sul consenso della persona offesa[8].

Guardando alle logiche sottese alla norma e alla sua applicazione, risulta chiaro che i miti dello stupro, così come i pregiudizi di genere, non sono meri bias cognitivi attivati da emozioni, idiosincrasie e preferenze individuali del tutto avulse dal contesto sociale. Essi sono piuttosto concetti distorsivi con una notevole portata normativa che oscurano la comprensione collettiva della violenza sessuale, cristallizzandosi, fra l’altro, nelle norme scritte e nelle ragioni decisorie raccolte nelle motivazioni dei provvedimenti. A titolo esemplificativo, si considerino i seguenti frammenti, estratti da recenti sentenze di Tribunale e d’Appello:

«Appaiono invece veritiere le conformi dichiarazioni dei ragazzi, che per tutta la sera erano stati da lei eccitati e che poi quando infine in macchina avevano tentato un rapporto sessuale non avevano avuto alcuna erezione completa» (Corte d’Appello di Firenze, 2015).

«Gli indumenti che indossava (tra cui un paio di mutandine e di jeans), [sono] risultati (peraltro) privi di strappi o segni che potessero far pensare ad una qualche “forzatura” nel toglierli» (Corte d’Appello di Ancona, 2017).

«Non grida, non urla, non piange […] pare abbia sempre continuato il turno con il collega dopo gli abusi […]» (Tribunale di Torino, 2017).

«Lascia ulteriormente perplessi l’affermazione della [persona offesa] di avere continuato a consumare rapporti sessuali consenzienti con quello stesso uomo che appena prima l’aveva abusata» (Tribunale di Milano, 2018).

«Quando le aveva detto “zitta troia” non l’aveva fatto per disprezzo, ma preso dall’enfasi del rapporto sessuale» (Tribunale di Viterbo, 2019).

«Si ricorda che la stessa [persona offesa] ha precisato come i toccamenti e i baci, principiati da un mero massaggio sulle spalle, siano poi stati protratti per un tempo di circa trenta secondi, in cui ella aveva continuato a sfogliare e a leggere i documenti, senza manifestare alcun dissenso» (Tribunale di Busto Arsizio, 2022).

Che si tratti di violenze sessuali perpetrate dal partner, dal collega, da un gruppo di uomini noti alla persona offesa o da persone sconosciute, attraverso la lente dei miti dello stupro, la realtà della violenza viene distorta, oscurata e negata a discapito di chi la subisce. Chi applica la norma assumendo i miti dello stupro come lente interpretativa non comprende che la violenza sessuale è una questione di potere, e non un delitto istintuale (cfr. p. es. Dworkin 1981; MacKinnon 1983; Brison 2012); ignora che la più comune reazione all’aggressione sessuale è il senso di vergogna e la completa difficoltà di reazione (il che rende l’assenza di lesioni fisiche un dato neutrale)[9]; non tiene conto che la violenza sessuale è tipicamente commessa da partner ed ex-partner, amici e parenti della persona violentata[10]; fallisce nel riconoscere come plausibile il fatto che la parte offesa abbia in taluni casi rapporti sessuali consenzienti con la stessa persona da cui ha subito violenze; non comprende che la penetrazione non è parametro adeguato a misurare il disvalore della condotta e la gravità del fatto, dal momento che spetta solo alla parte lesa nominare come violento l’atto non voluto (Virgilio 1996:166). E ancora, chi giudica intrattenendo il mito dello stupro secondo cui la donna provoca (anche solo esistendo) e l’uomo reagisce, ignora – o si rifiuta di accettare – che la validazione processuale della ricostruzione del fatto non ha nulla a che vedere con l’esplorazione delle inclinazioni caratteriali della persona offesa, ed ancor meno con l’espressione di giudizi sulla sua condotta (Canevini 2022:75). Il risultato è che, quando operativi sul piano del concreto accertamento giudiziario, i miti dello stupro inducono chi giudica a plasmare i fatti e a reinterpretarli appoggiandosi ad inferenze illogiche e talvolta grottesche che possono condurre facilmente a vittimizzazione secondaria processuale[11].

Se fino ad ora abbiamo preso in esame alcuni dei miti dello stupro incorporati dalla norma e cristallizzati nel testo della sentenza, in quanto segue analizzo le risorse ermeneutiche adottate dall’organo giudicante nel momento dell’accertamento dibattimentale (si veda anche Volta 2024). Analizzando una sequenza di domande e risposte tratta dalle trascrizioni di udienza di un recente procedimento penale, mostrerò come i miti dello stupro possano alterare l’assunzione della prova testimoniale della persona offesa, dando luogo a una forma di ingiustizia ermeneutica che oscura elementi pertinenti e rilevanti a danno della testimone.

  • 2. I miti dello stupro in aula di udienza: un esempio

Nel procedimento penale in oggetto, il soggetto imputato è accusato per i reati di maltrattamenti contro familiari e lesioni personali e per il reato di violenza sessuale – con l’aggravante di avere commesso il fatto nei confronti di persona a cui era legato da relazione affettiva e con l’uso di un’arma[12]. In quanto segue, mi concentro sull’accusa di violenza sessuale, e sull’applicazione della nozione giuridica di atto sessuale in particolare.

Partiamo dal dato fattuale che deve essere accertato. Nel capo di imputazione, si legge che «con violenza e minaccia [l’imputato], costringeva in numerose occasioni [la persona offesa] a subire atti sessuali contro la sua volontà». In particolare, il riferimento è sia a episodi in cui la persona offesa veniva costretta a subire «un rapporto sessuale completo», sia a episodi in cui l’imputato la «molestava ripetutamente con palpeggiamenti». Si tratta dunque di più violenze sessuali, avvenute con frequenza nell’arco di diversi anni, e consistenti sia in penetrazioni, sia in palpeggiamenti agiti coartando la volontà della persona offesa. Introdotti i fatti che costituiscono oggetto di prova, passiamo ora all’accertamento dibattimentale.

L’esempio che propongo di seguito riguarda l’esame diretto. In questa prima fase dell’esame incrociato, la testimone espone i fatti di cui è a conoscenza guidata dalle domande del pubblico ministero, il quale, conoscendo previamente le informazioni che la testimone deve fornire, persegue lo scopo di fare emergere gli elementi che provano la rilevanza penale dell’oggetto del procedimento. Ebbene, l’esame del pubblico ministero, in questo caso specifico, è intervallato da una lunga serie di domande del Tribunale – la cui conoscenza del fatto è limitata a quanto riportato nel capo di imputazione. Più esattamente: alla ventottesima domanda, il pubblico ministero viene interrotto dalla presidente del collegio giudicante, la quale prosegue l’esame ponendo alla testimone 199 domande. Preme sottolineare che la ventottesima domanda del pubblico ministero è anche la prima con cui la testimone viene sollecitata a descrivere gli episodi di violenza sessuale, e fra le 199 domande poste dalla presidente, la maggior parte entrano nel merito della ricostruzione fattuale degli episodi di violenza sessuale.

Nel rispondere alle domande poste dal Tribunale, la persona offesa racconta con dovizia di dettagli le violenze, le minacce e le ingiurie subite, e pone enfasi sulla paura e l’umiliazione provate quando l’allora partner e convivente la costringeva a subire atti sessuali contro la sua volontà. Nel momento che qui ci interessa, la testimone descrive la dinamica di una delle violenze dichiarando che l’imputato le aveva «rotto tutti i vestiti» e l’aveva spinta nel letto fra insulti e minacce, iniziando poi a violentarla tenendola per il collo fino a farle «vedere tutto nero». La giudice le pone dunque una serie di ulteriori domande volte a qualificare il tipo di atto sessuale subito:

GIUDICE: Mi scusi, ma glielo devo chiedere, lei è stata penetrata?

PERSONA OFFESA: Sì.

GIUDICE: Lui è entrato dentro di lei. E lui è venuto?

PERSONA OFFESA: Come?

GIUDICE: È venuto lui?

PERSONA OFFESA: No.

GIUDICE: Soltanto l’atto è stato fatto ma non portato a compimento.

E dopo un’altra domanda volta a verificare se l’imputato avesse stretto la persona offesa per il collo prima o dopo la violenza sessuale, conclude:

GIUDICE: Quindi tutto il resto è successo dopo che voi avete avuto questo rapporto sessuale non completato ma iniziato.

Osservando questo breve scambio conversazionale, viene subito da domandarsi quale criterio abbia condotto la giudice a ricercare nell’orgasmo dell’imputato l’elemento determinante per la qualificazione del «rapporto sessuale» come «completo». Come si ricorderà, la nozione di atto sessuale rappresenta un elemento normativo extra-giuridico che risponde all’esigenza di tutelare l’autodeterminazione della persona offesa nella propria sfera sessuale rispetto all’intrusione non richiesta (Di Nicola e Menditto 2020:225). Considerando irrilevante il grado di eccitazione e soddisfacimento dell’istinto sessuale dell’autore, la giurisprudenza definisce «atto sessuale» qualsiasi condotta coinvolga la corporeità della persona offesa – come ad esempio i palpeggiamenti, gli sfregamenti e il bacio sulla bocca – e definisce «violento» qualunque atto da cui consegua la limitazione della libertà sessuale della stessa (Di Nicola e Menditto 2020: 218, 226). Più esattamente, secondo la Cassazione, la fattispecie criminosa prevista dall’art. 609-bis c.p. comprende

qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, o comunque coinvolgente la corporeità sessuale di quest’ultimo, è finalizzato e idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale, indipendentemente dall’appagamento da parte dell’agente di un istinto libidinoso. (Cass. pen., sez. III, 15 marzo 2022 (dep. 2 aprile 2022), n. 1162).

La rilevanza attribuita all’orgasmo dell’imputato nel caso preso in esame sembra invece derivare da un ribaltamento di prospettiva che distorce la realtà della violenza sessuale: il mito dello stupro qui operativo definisce implicitamente la violenza sessuale in termini di «delitto passionale», assegnando centralità all’autore e alla sua volontà di soddisfare il proprio istinto sessuale. Inoltre, adottando una concezione fortemente stereotipata dell’atto sessuale, la giudice sembra assumere – intenzionalmente o meno – che un rapporto sessuale con penetrazione, per essere qualificato come «completo» debba implicare necessariamente il raggiungimento dell’orgasmo da parte dell’autore del reato. Tale ribaltamento prospettico conduce il Tribunale a ritenere legittime domande altamente lesive, e motiva la qualificazione della violenza descritta come «atto non portato a compimento».

A indicare la presenza di miti dello stupro che distorcono la concezione di atto sessuale è anche il fatto che fra le 199 domande poste dalla giudice nemmeno una riguarda i palpeggiamenti non voluti – i quali abbiamo visto essere riportati nel capo di imputazione. Ogni volta in cui la dichiarante racconta un episodio di violenza, la giudice le chiede se l’atto sessuale sia stato commesso con forza («E l’avete fatto con la forza?») e con costrizione («Alla fine il rapporto l’avete consumato? L’ha costretta a fare sesso?»), ma non verifica se vi siano state altre violenze sessuali al di fuori di quelle che includono la penetrazione. In tal modo, i miti dello stupro operativi nell’assunzione della prova testimoniale causano una forma di ingiustizia ermeneutica: forgiando una lente interpretativa distorta per guardare al caso particolare, essi impediscono l’adozione e l’applicazione di risorse ermeneutiche più accurate, e negano intelligibilità alla prospettiva epistemica ed esperienziale della persona offesa fino a minimizzare fatti penalmente rilevanti. Difatti, se si abbandona la prospettiva ideologica che definisce la violenza a partire dalla sessualità e dall’appagamento erotico maschile, risulta chiaro che l’invasione della sfera sessuale della persona offesa in assenza di consenso è già violenza sessuale. Per cogliere meglio questo aspetto cruciale, si confrontino le domande poste dalla giudice con quelle formulate in controesame dall’avvocata della persona offesa (costituitasi parte civile):

PARTE CIVILE, AVV.: Riguardo agli abusi sessuali, quando non veniva consumato il rapporto, quando lei riusciva a opporsi al rapporto, lui riusciva comunque a metterle le mani addosso? Quando non c’era penetrazione c’erano altri atti sessuali che lei non desiderava?

PESONA OFFESA: Sì.

PARTE CIVILE, AVV.: Quali?

PERSONA OFFESA: Che mi metteva le mani addosso.

PARTE CIVILE, AVV.: Dove?

PERSONA OFFESA: Sul seno. […]

PARTE CIVILE, AVV: Durante queste scene che lei ci ha appena descritto lei piangeva?

PERSONA OFFESA: Sì.

PARTE CIVILE, AVV: E lui davanti al suo pianto interrompeva?

PERSONA OFFESA: No.

Riportando l’attenzione sulla persona offesa e sulla violazione della sua intimità sessuale, l’avvocata restituisce alla nozione di «atti sessuali» la sua dimensione, e permette alla testimone di descrivere fatti penalmente rilevanti e precedentemente trascurati. Esortata a raccontare cosa accadeva «quando non veniva consumato il rapporto», la persona offesa dichiara infatti di avere subito palpeggiamenti e baci non voluti, articolando dinnanzi al collegio giudicante una realtà della violenza sessuale che i miti dello stupro contribuiscono a ottenebrare.

3. Verso una giustizia ermeneutica

I miti dello stupro non sono estranei alla norma. Essi, al contrario, l’hanno in parte forgiata, e sopravvivono tuttora nella prassi applicativa. Il presente contributo aveva lo scopo di illustrare il loro funzionamento nello specifico contesto del dibattimento.

L’esempio proposto mostra che, quando operativi nell’assunzione della prova dibattimentale, i miti dello stupro possono diventare la lente interpretativa privilegiata con cui filtrare le fonti di prova, generando una distorsione indebita della norma nella sua applicazione. Evocando antichi codici, essi possono portare ad ammettere prove irrilevanti o altamente pregiudizievoli per la persona offesa, e possono oscurare fatti sulla violenza subita che è nell’interesse della teste comunicare e vedere riconosciuti. Se da una prospettiva epistemologica tale circostanza costituisce un’ingiustizia ermeneutica, sul piano giuridico essa crea un attrito fra norma e prassi giudiziaria del tutto in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza (cfr. Di Nicola e Menditto 2020).

Grazie alle battaglie femministe, esistono oggi risorse concettuali accurate per comprendere la violenza sessuale. E il diritto le ha in parte integrate. La Cassazione, in armonia con le Convenzioni sovranazionali, si è da tempo assestata su una definizione di violenza sessuale basata sul consenso della persona offesa, e ha di recente indicato la prospettiva di genere come metodo interpretativo (cfr. Cass. Pen., Sez. VI, sentenza 14247/2023). Osservare il funzionamento dei miti dello stupro nell’accertamento dibattimentale può essere un modo efficace per mettere in luce e contrastare le resistenze concettuali che impediscono di riconoscere come legittima la prospettiva di genere, ed è certamente un passaggio necessario se si vuole garantire un’assunzione e valutazione imparziale della prova testimoniale.

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[1] Per un’analisi delle forme di ignoranza attiva che hanno contribuito a oscurare, distorcere o cancellare le conoscenze sull’orgasmo femminile, si vedano i lavori di Nancy Tuana (2004, 2006).

[2]Per una teoria dell’ingiustizia ermeneutica in termini di oppressione epistemica, si veda anche Dotson (2012).

[3] Nel contesto statunitense, è entrato in uso anche il termine misogynoir, coniato da Moya Bailey nel 2010 per descrivere un tipo di discriminazione qualitativamente specifico, dato dalla sovrapposizione dell’oppressione di genere e di razza.

[4] In questo articolo, adotto il termine “mito dello stupro” traducendolo dall’inglese “rape myth”. Tuttavia, nel sistema giuridico italiano la legge contempla la più ampia categoria di “violenza sessuale”, la quale include una vasta gamma di atti sessuali – dal bacio, all’atto sessuale con penetrazione vaginale, anale o orale (si veda art. 609-bis c.p.). Nell’indagare il ruolo dei miti dello stupro nella qualificazione degli atti di violenza sessuale, terrò conto del dettato normativo italiano.

[5]In quanto segue, prendo in analisi unicamente i miti dello stupro riferiti alle donne.

[6] Nelle parole di Alberto Cadoppi, «Il centrale rilievo dato al requisito della penetrazione si spiegava con la genesi storica dello “stupro” quale “reato peccato” che si manifestava con ogni semplice violazione, anche al di fuori di una qualsiasi violenza, delle regole stabilite dalla Chiesa in materia» (Cadoppi 1996:32). Si veda anche MacKinnon (1983), in cui la centralità attribuita dalla norma alla penetrazione viene ricondotta al precetto della monogamia eterosessuale.

[7] Sul matrimonio riparatore, così l’ex art. 544 c.p.: «[…] il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali» (cit.).

[8]Per una sentenza recente, si veda p. es. Cass. Pen., Sez. III, 19 marzo 2019 (dep. 15 ottobre 2019), n.42118, in cui la Corte di cassazione afferma che «a carico della vittima non vi è alcun onere di espressione del dissenso all’intromissione di soggetti terzi all’interno della sua sfera di intimità sessuale; al contrario, si deve ritenere che tale dissenso sia da presumersi laddove non sussistano indici chiari ed univoci volti a dimostrare l’esistenza di un consenso, sia pur tacito ma in ogni caso inequivoco».

[9] Le ricerche scientifiche dimostrano che circa il 70% delle persone vittime di violenza sessuale durante l’aggressione restano paralizzate (Möller et al. 2017:932). Inoltre, anche laddove la cosiddetta ‘immobilità tonica’ (o ‘congelamento’) non si verifica, è comune che la paura e l’umiliazione provate siano tali da condurre la parte offesa in uno stato di passività (Ibid.).

[10] Si veda l’indagine ISTAT 2015, consultabile al seguente link: https://www.istat.it/statistiche-per-temi/focus/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/violenza-dentro-e-fuori-la-famiglia/il-numero-delle-vittime-e-le-forme-di-violenza/

[11] Cfr. p. es. Di Nicola Travaglini 2021; Fiore 2022; Caletti 2023; Volta 2024.

[12] Si precisa che le trascrizioni riportate in questo articolo corrispondono a quelle contenute nei verbali del relativo procedimento penale. Per ragioni di privacy, mi limito a specificare che gli esempi riguardano un’udienza avvenuta nel 2022.

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