Le sentenze delle Corti internazionali in materia di violenza di genere. Aggiornamento a maggio 2024.
La rassegna riporta la giurisprudenza delle Corti internazionali in materia di violenza di genere. Le pronunce sono state selezionate tra le sentenze depositate tra gennaio e maggio 2024, secondo un criterio di rilevanza e di interesse per i temi di ricerca dell’Osservatorio. La rassegna è stata redatta da Martina Millefiorini e Elettra Coppola, con la supervisione delle avv. Ivonne Panfilo e Tatiana Montella.
- La CEDU e le molestie sul lavoro
“Nessun dipendente, nessuna persona in formazione o tirocinio può essere sanzionato, licenziato o essere oggetto di un provvedimento discriminatorio per aver testimoniato di atti di molestie sessuali o per averli denunciati”.
La Corte europea diritti dell’uomo, Sez. V, con la sentenza del 18.01.2024, n. 20725/20 ha stabilito che integra una violazione dell’art. 10 della Convenzione la sanzione penale a danno di una lavoratrice che aveva inviato ad un numero limitato di soggetti una e-mail con oggetto “Violenza sessuale, molestie sessuali e psichiche”, tra cui il direttore generale dell’associazione, con cui li allertava sulla sua situazione e sulle condotte che aveva subito, in modo che si potesse trovare un modo per porvi fine. La Corte europea ha enfatizzato la circostanza che la lavoratrice avesse agito in qualità di presunta vittima di molestie sessuali e che la mail contenesse mere dichiarazioni di fatto, benché descritte con toni comprensibilmente accesi.
Fatto e procedimento: Alla data dei fatti, la ricorrente era impiegata come segretaria presso un’associazione di educazione religiosa a Parigi. Nell’ambito delle sue mansioni dovette collaborare con il presunto autore dei fatti, allora vicepresidente esecutivo dell’associazione. Nel luglio 2015, la ricorrente chiese di essere assegnata ad un altro incarico, non desiderando più lavorare con l’uomo a causa del suo comportamento che lei percepiva come molesto. Successivamente, la ricorrente ha inviato, dal suo indirizzo di posta elettronica personale, un messaggio di posta elettronica intitolato “Violenza sessuale, molestie sessuali e morali” al direttore generale dell’associazione, in copia all’ispettore del lavoro, al marito e al soggetto accusato, nonché al figlio di quest’ultimo. Nella mail sosteneva di non poter più continuare a svolgere il suo lavoro e che intendeva portare la causa dinnanzi a un tribunale. Nel 2016 il soggetto accusato citò direttamente il ricorrente e il marito davanti al tribunale penale di Parigi per rispondere di pubblica diffamazione. La ricorrente ha affermato il carattere non pubblico dell’e-mail contestata e ha sostenuto che avrebbe dovuto beneficiare del diritto, riconosciuto ai lavoratori dipendenti dal Codice del lavoro, di denunciare i reati di cui erano vittime o testimoni. Il tribunale penale di Parigi dichiarò il ricorrente e il marito colpevoli di diffamazione pubblica di un individuo. La ricorrente fece appello contro la sentenza. La Corte d’appello si è limitata soltanto a ridurre l’importo dell’ammenda inflitta alla ricorrente, mantenendo la condanna. La ricorrente ha presentato ricorso alla Corte di cassazione, lamentando in particolare la violazione dell’articolo 10 della CEDU, nonché del suo “diritto di allerta” riconosciuto al lavoratore dal Codice del lavoro francese.
Diritto e decisione: Nel ricorso presentato in Cassazione l’avvocato ha citato una sentenza della 1ª Sezione Civile della corte francese in materia di molestie morali e applicabile anche alle molestie sessuali, secondo cui: “nessun dipendente, nessuna persona in formazione o tirocinio può essere sanzionato, licenziato o essere oggetto di un provvedimento discriminatorio per aver testimoniato di atti di molestie sessuali o per averli denunciati”. L’avvocato conclude che tale giurisprudenza è applicabile alle molestie sessuali e che, poiché i dipendenti sono autorizzati dalla legge a denunciare al datore di lavoro e agli organi preposti a vigilare sull’applicazione delle disposizioni del codice del lavoro, i casi di molestie morali o aggressioni sessuali di cui sono o sono stati vittime, la denuncia di diffamazione non dovrebbe essere perseguita verso i suoi assistiti. La Corte di cassazione ha respinto il ricorso della ricorrente. La donna ha scelto di proporre ricorso dinnanzi alla corte EDU; la ricorrente lamenta che la sua condanna penale per diffamazione ha violato il suo diritto alla libertà di espressione.
La Corte EDU ha stabilito che la condanna penale della ricorrente costituisce un’ingerenza nell’esercizio della libertà di espressione. Per quanto riguarda, in primo luogo, i destinatari dell’e-mail contestata, la Corte ricorda che erano solo sei: il presunto aggressore, i suoi due figli (di cui uno era già a conoscenza delle accuse), il direttore generale dell’associazione, l’ispettore del lavoro e infine il marito della persona interessata. Pertanto, di queste sei persone, solo il secondo figlio era estraneo alla vicenda, mentre tutti gli altri ne erano coinvolti, direttamente o indirettamente, oppure autorizzati a ricevere segnalazioni di molestie. La Corte ritiene quindi che si trattasse di “un testo inviato a un numero limitato di persone, non destinato ad essere diffuso al pubblico, ma il cui unico scopo era quello di allertare gli interessati circa la situazione al fine di trovare una soluzione e la fine delle condotte”, riprendendo la sentenza della Corte di cassazione francese citata.
La Corte ha stabilito che: “Non vi è stato un ragionevole rapporto di proporzionalità tra la limitazione del diritto alla libertà di espressione del ricorrente e lo scopo legittimo perseguito. Il provvedimento ha quindi violato l’articolo 10 della Convenzione EDU che tutela la libertà di espressione”. La Corte ha ritenuto opportuno, tenuto conto del contesto della causa e della natura della violazione accertata, riconoscere al ricorrente una somma a titolo di risarcimento dei danni materiali e morali.
- La Corte di giustizia dell’Unione Europea sul riconoscimento della protezione internazionale sulla base della violenza di genere nel paese di origine
“Le donne, nel loro insieme, possono essere considerate come appartenenti a un «determinato gruppo sociale», ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95, e meritevoli dello status di rifugiate, qualora sia accertato che, nel loro paese d’origine, esse sono, a causa del loro sesso, esposte a violenze fisiche o mentali, incluse violenze sessuali e violenze domestiche”.
Fatto e procedimento: Nella sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea del 16 gennaio 2024, causa C-621/21, WS contro Intervyuirasht organ na Darzhavna agentsia za bezhantsite pri Ministerskia savet, una cittadina turca appartenente al gruppo etnico curdo, musulmana sunnita e divorziata giungeva legalmente in Bulgaria nel giugno 2018. Successivamente, essa ha raggiunto un suo familiare a Berlino (Germania), dove ha presentato una domanda di protezione internazionale. Con decisione delle autorità tedesche, la donna è stata presa in carico dalle autorità bulgare ai fini dell’esame della sua domanda di protezione internazionale. Nelle tre audizioni effettuate dalle autorità bulgare, la donna ha dichiarato di essere stata costretta a contrarre matrimonio all’età di sedici anni, e di aver avuto tre figlie. Il coniuge l’ha picchiata abitualmente nel corso della loro vita coniugale, senza che la sua famiglia biologica, che era a conoscenza di tale situazione, l’abbia aiutata. La donna è fuggita dal domicilio coniugale nel settembre 2016, ha contratto matrimonio religioso nel 2017 con un altro uomo ed ha avuto un figlio da quest’ultimo. Dopo aver lasciato la Turchia, ha divorziato ufficialmente dal suo primo marito nonostante l’opposizione di quest’ultimo. Per tali motivi, essa ha espresso il timore di essere uccisa dalla sua famiglia nel caso in cui fosse tornata in Turchia. Mentre si trovava ancora in Turchia, la donna ha ottenuto il divorzio, ha denunciato il marito ed è stata inserita in una casa di fuga per donne vittime di violenza ove però non si trovata al sicuro a causa delle pressioni del marito e della famiglia e, per questo motivo, ha deciso di lasciare il paese.
L’autorità bulgara ha negato il riconoscimento della protezione internazionale (sia lo status di rifugiato che la protezione sussidiaria) ritenendo che la donna non soddisfacesse le condizioni richieste per ottenere lo status di rifugiato (in quanto le donne non possono essere considerate un gruppo sociale a rischio di persecuzione); inoltre, per quanto concerne la protezione sussidiaria non vi sarebbe il requisito del rischio di “danno grave” previsto dalla direttiva 2011/95, in quanto «né le autorità ufficiali né determinati gruppi avrebbero intrapreso contro la richiedente azioni che lo Stato non è in grado di controllare» e nei limiti in cui essa «sarebbe stata oggetto di aggressioni criminali di cui non aveva neppure informato la polizia e per le quali non aveva sporto denuncia e (…) avrebbe lasciato legalmente la Turchia». Le corti bulgare hanno rigettato i ricorsi dei legali della donna fino al giudice di ultimo grado che ha rimesso la questione alla Corte di giustizia dell’Unione Europea con le seguenti domande: se una donna, vittima di tali violenze, appartenga a un determinato gruppo sociale, come motivo di persecuzione, ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95; se il genere biologico o sociale sia sufficiente e se gli atti di persecuzione, inclusa la violenza domestica, possano risultare decisivi per stabilire la visibilità di tale gruppo nella società, anche alla luce degli artt. 34 e 40 della Convenzione di Istanbul.
Diritto e decisione: La Corte di giustizia dell’Unione Europea ha deciso in grande sezione, stabilendo che: “1) L’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, deve essere interpretato nel senso che, sulla base delle condizioni esistenti nel paese d’origine, possono essere considerate appartenenti a «un determinato gruppo sociale», come «motivo di persecuzione» che può condurre al riconoscimento dello status di rifugiato, tanto le donne di tale paese nel loro insieme quanto gruppi più ristretti di donne che condividono una caratteristica comune supplementare.
2) L’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che, qualora un richiedente alleghi il timore di essere perseguitato nel suo paese d’origine da soggetti non statuali, non è necessario stabilire un collegamento tra uno dei motivi di persecuzione menzionati all’articolo 10, paragrafo 1, di detta direttiva e tali atti di persecuzione, se può essere stabilito un tale collegamento tra uno di detti motivi di persecuzione e la mancanza di protezione contro tali atti da parte dei soggetti che offrono protezione, di cui all’articolo 7, paragrafo 1, di detta direttiva.
3) L’articolo 15, lettere a) e b), della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che la nozione di «danno grave» ricomprende la minaccia effettiva, gravante sul richiedente, di essere ucciso o di subire atti di violenza da parte di un membro della sua famiglia o della sua comunità, a causa della presunta trasgressione di norme culturali, religiose o tradizionali, e che tale nozione può quindi condurre al riconoscimento dello status di protezione sussidiaria, ai sensi dell’articolo 2, lettera g), di tale direttiva”.