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Rassegna sul Reato di Violenza sessuale, art. 609 bis c.p. Aggiornamento a maggio 2024

La rassegna riporta la giurisprudenza della Corte di cassazione sul reato di “Violenza sessuale” (art. 609 bis c.p.). Le pronunce sono state selezionate tra le 270 sentenze depositate tra gennaio e maggio 2024 in materia, secondo un criterio di rilevanza e di interesse per i temi di ricerca dell’Osservatorio. La rassegna è stata redatta da Martina Millefiorini ed Elettra Coppola, con la supervisione delle avv. Ivonne Panfilo e Tatiana Montella.

  • Consenso – art. 609 bis, I comma, c.p.

“L’errore sull’atteggiarsi della volontà dell’altro soggetto (dissenso) è errore sul fatto che costituisce il reato, cioè causa impeditiva del dolo, non una causa putativa di esclusione dell’antigiuridicità, come avverrebbe se il dissenso dell’offeso non fosse elemento costitutivo della fattispecie della violenza sessuale”.

Nella pronuncia Cass. pen., Sez. III, dep. 27.02.2024, n. 8340 la Corte si è pronunciata sul seguente fatto: un ragazzo ed una ragazza, dopo aver fatto uso di alcolici, intraprendono delle effusioni e si spostano all’interno di una tenda, dove il ragazzo abusa sessualmente della donna. Gli elementi probatori sono formati dalle dichiarazioni della persona offesa, dell’imputato e di un’amica della ragazza, che si trovava anche lei nella tenda, restando di spalle ai due. L’imputato viene assolto dal giudice di primo grado, il quale ritiene che la ragazza avesse “manifestato adesione agli approcci, -senza volerlo ammettere neppure a sé stessa-, mentre il ragazzo ha errato nell’interpretazione del consenso”. La Corte d’appello, viceversa, ribalta la sentenza di primo grado, senza rinnovare l’istruttoria dibattimentale ma cambiando l’interpretazione degli elementi probatori condannando l’uomo per violenza sessuale. L’imputato, tramite i suoi difensori, ha proposto ricorso per cassazione per falsa applicazione dell’art. 609 bis in quanto mancherebbe l’elemento della costrizione previsto dall’articolo non essendo stato espresso dissenso in forma esplicita o tacita.

I giudici, nelle motivazioni della sentenza hanno ribaltato quanto ha stabilito la corte d’appello e la giurisprudenza della stessa corte in materia di consenso. Infatti, viene richiamato il seguente principio di diritto: “La Corte di cassazione ha affermato che l’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale (Cass. pen., sez. III, n. 7873 del 2022; Cass. pen., Sez. III, sent. n. 19599, dep. 10.05.2023)”.

La Corte, tuttavia, nel motivare l’assoluzione, ha stabilito che: “Proprio partendo dalla configurazione del dissenso come elemento costitutivo della fattispecie, il dubbio sul dissenso è dubbio sulla sussistenza del fatto, non sull’esistenza di una causa di antigiuridicità. «Siccome la coscienza di costringere, con violenza o minaccia, il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali è anzitutto consapevolezza del dissenso di questo, l’errore sull’atteggiarsi della volontà dell’altro soggetto (in particolare, l’errore sul valore sintomatico delle manifestazioni esterne di resistenza di costui) non è che un reato putativo per errore sul fatto che costituisce il reato, cioè causa impeditiva del dolo, non una causa putativa di esclusione dell’antigiuridicità, come avverrebbe se il dissenso dell’offeso non fosse elemento costitutivo della fattispecie»(Cass. pen., sez. III, n. 52835, dep. 19.06.2018). Ne consegue che l’errore sul fatto costitutivo del reato, cioè sul dissenso, facendo venir meno il dolo rileva se provato e la prova, o quanto meno la sua allegazione, incombe sull’imputato”.

La Corte ha ritenuto il ricorso fondato, assolvendo l’imputato, ed ha rinviato alla corte territoriale competente per un nuovo giudizio.

  • Atti sessuali – art. 609 bis, I comma, c.p.

1) “In tema di reati sessuali, il bacio sulla guancia configura violenza sessuale quando in base ad una valutazione complessiva della condotta che tenga conto del contesto ambientale e sociale in cui l’azione è stata realizzata, del rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante, possa ritenersi che abbia inciso sulla libertà sessuale della persona offesa”.

Nella sentenza Cass. pen., sez. III, dep. 29.02.2024, n. 8809, la Corte ha deciso sul seguente fatto: un uomo è stato condannato ai sensi dell’art. 609 bis, III comma, per aver baciato sulla spalla una ragazza dopo averla conosciuta in un parco poco tempo prima. L’uomo le aveva fatto diversi “apprezzamenti verbali” e le aveva chiesto più volte se avesse un fidanzato e aveva provato a baciarla in viso cercando di afferrarla, riuscendo poi a baciarle la spalla scoperta. La difesa dell’imputato ha proposto ricorso avverso la decisione di condanna della corte di secondo grado lamentando la falsa applicazione dell’art. 609 bis, in tema di violenza sessuale, in quanto non vi sarebbe stato contatto con le “zone erogene” (gli organi sessuali) dell’imputato e della persona offesa. Inoltre, il ricorso lamenta la mancanza dell’elemento della violenza o della minaccia.

La Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile, stabilendo che: “in tema di reati sessuali, il bacio sulla guancia, in quanto atto non direttamente indirizzato a zone chiaramente definibili come erogene, configura violenza sessuale, nella forma consumata e non tentata, allorquando, in base ad una valutazione complessiva della condotta che tenga conto del contesto ambientale e sociale in cui l’azione è stata realizzata, del rapporto intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante, possa ritenersi che abbia inciso sulla libertà sessuale della vittima(Cass. pen., sez. III, n. 43423 del 18.09.2019)”. Inoltre, i giudici hanno stabilito sul secondo motivo di doglianza che: “ai fini della configurabilità del delitto di violenza sessuale, non occorre che la violenza si espliciti con forma o veemenza particolare, ovvero in modo brutale ed aggressivo, potendo manifestarsi anche come sopraffazione funzionale e limitata alla pretesa dell’atto sessuale (Cass. pen., sez. V, n. 37460 del 22.09.2021)”.

2) “Ai fini del reato ex art. 609 bis c.p., gli atti di masturbazione rilevano quali atti sessuali anche quando la persona offesa sia stata costretta a praticarli su sé medesima, non essendo necessario il contatto fisico fra l’agente e la vittima. Il reato può avvenire anche attraverso modalità telematiche che consistono nell’invio di foto o video”.

Nella pronuncia Cass. pen., Sez. III, dep. 14.03.2024, n. 10692, un uomo è stato condannato in grado d’appello per violenza sessuale su di una ragazza. In particolare, l’uomo l’aveva costretta sotto plurime minacce di morte e percosse a inviargli foto in cui era ritratta nuda e video in cui la stessa compiva atti di masturbazione sul suo corpo. L’imputato ha presentato ricorso attraverso i suoi difensori lamentando l’erronea applicazione dell’art. 609 bis, I comma, in quanto tra i due non sarebbero mai avvenuti contatti fisici riconducibili a violenze sessuali.

La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile ed ha stabilito che: “Ai fini del reato ex art 609 bis c.p. gli atti di masturbazione rilevano quali atti sessuali non solo quando con costrizione praticati dall’agente a terzi o da costoro al primo, ma pure laddove la persona offesa sia stata costretta a praticarli su sé medesima, non essendo necessario il contatto fisico fra l’agente e la vittima. Non può, quindi, negarsi la possibilità della realizzazione del reato contestato anche per via telematica, quando il reo, utilizzando strumenti per la comunicazione a distanza quali il telefono, la videochiamata, la chat, costringe la persona offesa a compiere atti sessuali pur se questi non comportino alcun contatto fisico con l’agente”.

  • Violenza sessuale in presenza di maltrattamenti – artt. 572 e 609 bis c.p.

“Nella violenza sessuale in presenza di maltrattamenti (art. 572 c.p.), non è necessario che l’uso della violenza o della minaccia sia contestuale al rapporto sessuale per tutto il tempo, essendo sufficiente che il rapporto non voluto sia consumato anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza della persona offesa”.

Nella sentenza Cass. pen., Sez. III, dep. 31.01.2024, n. 4199, il fatto consisteva in plurimi maltrattamenti del marito nei confronti della moglie e dei figli e violenze sessuali a danno di quest’ultima. L’uomo ha proposto ricorso per cassazione, tramite i suoi difensori, a seguito della condanna in secondo grado con due principali motivi: falsa applicazione dell’art. 609 bis in quanto la donna non avrebbe mai apertamente dissentito ai rapporti sessuali e, in merito alla condanna anche per maltrattamenti ex art. 572 c.p., i giudici d’appello avrebbero mal motivato la condanna sulla base delle sole e sconnesse dichiarazioni della donna, non pienamente confermate nemmeno dalle dichiarazioni dei figli minori.

La Corte ha rigettato il ricorso con le motivazioni che seguono. Sul primo motivo, i giudici hanno ripreso il consolidato orientamento per cui: “In tema di reati sessuali, ai fini della configurabilità del delitto di cui all’art. 609-bis cod. pen. non si richiede che la violenza sia tale da annullare la volontà del soggetto passivo, ma che tale volontà risulti coartata dalla condotta dell’agente; né è necessario che l’uso della violenza o della minaccia sia contestuale al rapporto sessuale per tutto il tempo, dall’inizio sino al congiungimento, essendo sufficiente che il rapporto non voluto sia consumato anche solo approfittando dello stato di prostrazione, angoscia o diminuita resistenza in cui la vittima è ridotta”. E tale condizione di prostrazione e di timore di ulteriori violenze su di lei o sui figli, sottolineano i giudici, è avvalorata dalla condizione generale di maltrattamento in cui si trovava la donna. I giudici, infatti, puntualizzano come la stessa abbia dichiarato che dormiva separata dal marito ed assieme ai figli minori e quando egli veniva nella stanza per chiederle dei rapporti sessuali la stessa acconsentiva per non farlo innervosire e per evitare di disturbare il sonno dei figli.

Sul secondo motivo del ricorso i giudici hanno stabilito che: “Le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. A tal fine è necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l’individuazione dell’iter logico – giuridico che ha condotto alla soluzione adottata; mentre non ha rilievo, al riguardo, il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame qualora si tratti dì deduzione disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, non essendo necessaria l’esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese ed essendo, invece, sufficiente una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una valida alternativa”.

  • Violenza sessuale mediante abuso di autorità – art. 609 bis, I comma, c.p.

“Nella violenza sessuale con abuso di autorità, assume rilievo la mera sussistenza di un rapporto che possa definirsi di ‘sovra-ordinazione’ tra le parti, tale da ingenerare il timore, nella persona offesa, di ripercussioni se non aderisce all’approccio sessuale”.

Nella pronuncia Cass. pen., Sez. III, dep. 22.04.2024, n. 16698 la Corte ha deciso sul seguente caso: un coordinatore dei volontari della Croce Rossa ha compiuto violenze sessuali plurime nei confronti di una donna occupata presso il medesimo ufficio come lavoratrice interinale. Nei gradi precedenti l’uomo è stato condannato per i reati previsti agli artt. 81, 609-bis, primo comma, 609-septies, quarto comma, n. 3), cod. pen. Nel ricorso i difensori dell’imputato lamentano l’erronea applicazione della violenza sessuale mediante abuso di autorità (art 609 bis, I comma) e l’aggravante dell’art. 609 septies, in quanto mancherebbe tra i due un vero rapporto gerarchico. La donna, infatti, era una dipendente interinale nello stesso ufficio mentre l’imputato era il coordinatore dei volontari. Dalla ricostruzione dei fatti è emerso che tutti i dipendenti della Croce Rossa, compresi gli interinali, svolgevano ore di volontariato “in più” rispetto alle ore di lavoro stabilite da contratto. Queste ore non erano obbligatorie ma era risaputo che, al fine del rinnovo del contratto, fosse bene svolgere anche le ore di volontariato richieste e coordinate dall’imputato. Inoltre, l’uomo godeva di un contratto più stabile e molti anni di servizio nello stesso ufficio rispetto ai lavoratori interinali e ai volontari.

La Corte, rigettando il ricorso, ha stabilito che: “La posizione pubblicistica del colpevole ha agevolato la commissione dell’abuso, rendendo la persona offesa maggiormente vulnerabile per il metus o per la soggezione psicologica derivante dalle funzioni esercitate. […] Non è neppure necessario che l’abuso sia avvenuto durante l’espletamento, in senso tecnico, delle funzioni demandate al pubblico ufficiale (Cass. pen., sez. III, n. 3637, dep. 05.11.2013), essendo sufficiente che tale qualità abbia agevolato in modo diretto la commissione del reato «attraverso il condizionamento o il timore suscitato nella persona offesa» (Cass. pen., sez. III, n. 45064, dep. 19.09.2008), rendendo quest’ultima maggiormente vulnerabile. […] Pertanto, ai presenti fini, assume rilievo la mera sussistenza di un rapporto che possa definirsi come di ‘sovra-ordinazione’ tra le parti (che si è visto sussistere), tale da ingenerare il metus; la circostanza se l’imputato avesse o meno, in concreto, il potere di interferire sul rinnovo del contratto della persona offesa è irrilevante”.

  • Approfondimento su violenza sessuale mediante abuso di autorità, art. 609 bis, I comma, c.p.

“L’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali”.

Le Sezioni Unite della Corte di cassazione nel 2000, in Cass. pen., Sez. Un., n. 13 del 05.07.2000, avevano cristallizzato un certo orientamento rispetto alla definizione di violenza sessuale mediante abuso di autorità (art. 609 bis, I comma). Il caso era il seguente: un insegnante privato aveva compiuto atti sessuali con un suo allievo minore degli anni sedici. I giudici avevano stabilito, ai fini dell’applicazione del reato di violenza sessuale mediante abuso di autorità, che fosse necessario che l’abuso fosse “qualificato”, ossia che provenisse da un soggetto avente una posizione autoritativa formale e pubblicistica (orientamento conosciuto come tesi c.d. “pubblicistica”). Seguendo questa argomentazione, la Corte ha ritenuto corretta la decisione del giudice di merito che aveva qualificato il fatto come atti sessuali con minorenne (art. 609 quater c.p.) anzichè come violenza sessuale – art. 609 bis c.p., I comma – escludendo l’abuso di autorità in quanto, nel caso di specie, mancherebbe una posizione autoritativa formale.

A tale decisione si era contrapposto l’orientamento conosciuto come tesi c.d. “privatistica”, secondo la quale l’autorità di cui il soggetto agente abusa può coincidere con qualunque genere di supremazia, anche “di fatto”, ed avente natura privata, esercitata nei confronti della persona offesa. Questa interpretazione è stata sancita in Cass. pen., sez. III, n. 49990, dep. 1.12.2014 – ove il caso riguardava una donna dipendente di un’impresa che aveva subito una violenza sessuale da un suo superiore. In questa pronuncia i giudici hanno stabilito che: “In tema di violenza sessuale, il concetto di abuso di autorità va inteso in senso lato e non restrittivo, riferendosi ad una condizione di supremazia derivante da autorità, indifferentemente pubblica o privata, di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali”.

Ed ancora, in Cass. pen., sez. III, n. 33042, dep. 28.07.2016, la fattispecie era relativa ad una violenza sessuale commessa, all’interno di edificio scolastico, da un insegnante nei confronti di una ex alunna. Nella pronuncia la Corte ha osservato che l’autorità esercitabile con modalità abusive – e perciò costrittive – non è solo quella derivante da un potere legale, ma anche quella proveniente da una posizione soggettiva di preminenza (annulla con rinvio sent. Corte App. Firenze del 02.10.2014). I giudici hanno stabilito che: “In tema di violenza sessuale, l’espressione ‘abuso di autorità’ che costituisce, unitamente alla ‘violenza o alla minaccia’, una delle modalità di consumazione del reato previsto dall’art. 609-bis cod. pen., ricomprende qualsiasi forma di ‘supremazia’, sia essa pubblica o privata, di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali”.

Le Sezioni Unite sono intervenute a dirimere il contrasto propendendo per l’orientamento c.d. “privatistico” con la pronuncia Cass. pen., Sez. Unite, del 16.07.2020, n. 27326. Il caso sottoposto alla Corte era il seguente: l’imputato era stato ritenuto responsabile del reato di cui agli art. 81 c.p., comma 2 e art. 609-quater c.p., comma 4, perchè, in qualità di insegnante di inglese che impartiva lezioni private aveva costretto due alunne, minori degli anni quattordici, a subire ed a compiere su di lui atti sessuali.

Il giudice di primo grado ha ritenuto l’insegnante privato escluso dall’ambito di applicazione delle disposizioni normative originariamente contestate ed ha qualificato il fatto in termini di lieve entità (609 bis, III comma), valutando come modesto il grado di violenza ed offensività insito nei comportamenti accertati. La Corte di appello ha parzialmente riformato la decisione di primo grado riqualificando i fatti nei termini indicati dall’originaria imputazione (art. 81 c.p., comma 2, art. 609-bis c.p. e art. 609-ter c.p., n. 1) e rideterminando in aumento il trattamento sanzionatorio.

Avverso tale pronuncia l’imputato, tramite il proprio difensore di fiducia, ha presentato ricorso per cassazione. Tra i motivi di ricorso deduce la violazione degli artt. 609-bis e 609-quater c.p. per non essersi la Corte di appello conformata all’orientamento interpretativo di legittimità, seguito invece dal primo giudice, secondo cui l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, in mancanza della quale deve trovare applicazione la diversa ipotesi dell’art. 609-quater. La difesa ha ribadito la configurabilità, nel caso di specie, dell’ipotesi di reato di minore gravità.

Il ricorso è stato assegnato alla Terza Sezione penale, la quale, rilevata la sussistenza di un contrasto interpretativo, lo ha rimesso alle Sezioni Unite. Queste hanno posto in luce la sussistenza di due differenti linee interpretative, la prima delle quali afferma che l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone nell’agente una posizione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, in mancanza della quale deve trovare applicazione la diversa ipotesi dell’art. 609-quater, mentre la seconda estende l’abuso di autorità, quale modalità di consumazione del reato dell’art. 609-bis c.p., ad ogni potere di supremazia, anche di natura privata, di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali.

La difesa dell’imputato ha osservato che entrambi gli orientamenti espressi non possano ritenersi risolutivamente convincenti, rilevando che il richiamo al concetto di autorità indicherebbe espressamente una posizione giuridica soggettiva di vantaggio del tutto peculiare, la cui fonte di attribuzione avrebbe sempre natura pubblicistica e non potrebbe comunque originare da un regolamento negoziale tra privati. Perviene quindi alla conclusione che la soluzione interpretativa preferibile del quesito proposto alle Sezioni Unite sarebbe quella secondo cui l’abuso di autorità di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone nell’agente un rapporto di tipo formale pubblicistico di cui questi abbia abusato per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali, opzione interpretativa, questa, che avrebbe anche il vantaggio di non frustrare l’esigenza di apprestare maggior tutela possibile al bene giuridico protetto, risultando al contempo rispettosa del principio di legalità e tipicità.

Ha presentato memoria anche il Procuratore Generale, illustrando diffusamente le ragioni per le quali, andrebbe preferita una lettura dell’art. 609-bis c.p., comma 1 secondo cui l’abuso di autorità in esso contemplato non è esclusivamente riferibile ad una situazione autoritativa di tipo formale e pubblicistico, ben potendo comprendere anche i poteri di supremazia di natura privata di cui l’agente abusi per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali.

Nella sentenza viene richiamata l’attenzione sul contenuto dell’art. 61 c.p., n. 11 osservando che lo stesso si riferisce, indifferentemente, all’abuso di autorità o di relazioni domestiche, ovvero di relazioni d’ufficio, di prestazioni d’opera, di coabitazione o di ospitalità e ricordando come la giurisprudenza ne abbia sempre offerto un’interpretazione pacificamente ampia, riferibile indistintamente tanto all’autorità pubblica che a quella privata, mentre quando il legislatore intende considerare una posizione autoritativa di tipo pubblicistico la indica espressamente, come nel caso dell’art. 608 c.p., il quale fa specifico riferimento al “pubblico ufficiale”, menzione che, presente nell’abrogato art. 520 c.p., non è stata ripetuta nella formulazione dell’art. 609-bis c.p. con il preciso fine di sanzionare qualsiasi persona che, dotata di autorità pubblica o privata, abusi della sua posizione per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali.

Nelle motivazioni in diritto la Corte ha stabilito che: “l’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609-bis, comma 1°, c.p. presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali, e ricomprende anche situazioni derivanti da rapporti di natura privatistica o di mero fatto quali i rapporti di lavoro dipendente anche irregolare”. Ed ancora: “la coartazione che consegue all’abuso di autorità trae origine dal particolare contesto relazionale di soggezione tra autore e vittima del reato determinato dal ruolo autoritativo del primo, creando le condizioni per cui alla seconda non residuano valide alternative di scelta rispetto al compimento o all’accettazione dell’atto sessuale che, consegue, dunque, alla strumentalizzazione di una posizione di supremazia”.

Esclusa la natura formale e pubblicistica dell’autorità di cui l’agente abusa nel commettere il reato di cui all’art. 609-bis c.p., occorreva stabilire se l’autorità “privata” fosse solo quella che deriva dalla legge o anche un’autorità “di fatto”. Sul punto i giudici hanno affermato: “ed è conseguente alle premesse indicate ritenere corretta la seconda ipotesi, poichè, se ciò che rileva è la coartazione della volontà della persona offesa, posta in essere da una posizione di preminenza, la specifica qualità del soggetto agente resta in secondo piano rispetto alla strumentalizzazione di tale posizione, quale ne sia l’origine”.

In altre parole, per la configurabilità del reato in esame occorre dimostrare non soltanto l’esistenza di un rapporto di autorità tra autore del reato e persona offesa diverso dalla mera costrizione fisica e dalle richiamate ipotesi di minaccia ed induzione, ma anche che di tale posizione di supremazia l’agente abbia abusato al fine di costringere la persona offesa a compiere o subire un atto sessuale al quale non avrebbe in altro contesto consentito, dovendosi dunque escludere la possibilità di desumere la costruzione in via meramente presuntiva sulla base della posizione autoritativa del soggetto agente.

Alla stregua di quanto precede, la Corte ha enunciato il seguente principio di diritto: “L’abuso di autorità cui si riferisce l’art. 609-bis c.p., comma 1, presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o subire atti sessuali”.

Nel caso preso in esame dalla Corte, viene dato conto non soltanto della sussistenza del rapporto di preminenza esistente tra l’imputato, insegnante privato, e le persone offese, sue allieve, in ragione dell’attività espletata, ma anche della condotta posta in essere e ritenuta esorbitante rispetto ai normali canoni dell’insegnamento; sono posti altresì in evidenza, quali dati fattuali significativi della costrizione esercitata sulle allieve e la stretta connessione con la strumentalizzazione del ruolo di docente, la rivelazione delle violenze subite solo a distanza di tempo e solo dopo il superamento di riserve psicologiche, circostanza ritenuta indicativa dell’autorevolezza che contraddistingueva il rapporto tra l’imputato e le minori. I giudici hanno, pertanto, rigettato il ricorso presentato dalla difesa dell’imputato.

  • Violenza sessuale abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica (c.d. stato di vulnerabilità) – art. 609 bis, II comma, n. 1, c.p.

“Nella violenza sessuale abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica queste ultime sono non solo quelle comprovate da certificati medici, ma anche le condizioni di vulnerabilità che dipendono da un limitato processo evolutivo, mentale, culturale, dalla minore età e da altri fattori individuali, familiari e contestuali che devono essere valutati caso per caso.” 

Nella sentenza Cass. pen., sez. III, dep. 18.03.2024, n. 11168, i giudici si sono pronunciati sul seguente caso: un uomo è stato condannato nei due gradi di giudizio per violenza sessuale approfittando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica (art. 609 bis, II comma, n. 1, c.p.) nei confronti di un ragazzo di 14 anni che frequentava l’oratorio dove l’uomo lavorava come barista. Il condannato ha proposto ricorso con la seguente motivazione: vizio motivazionale nel considerare il minore in condizioni di inferiorità fisica o psichica in quanto non esisteva una situazione comprovata e visibile di tale inferiorità e perché il minorenne avrebbe prestato consenso ad alcuni atti sessuali con l’uomo e avrebbe, come avvalorato da alcuni elementi di prova, più volte cercato l’uomo o risposto ai suoi messaggi.

La Corte ha ritenuto il ricorso infondato ed ha stabilito: “Si è quindi osservato che, per escludere la configurabilità del reato di violenza sessuale con abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa, non è sufficiente che la persona con la quale è intercorso il rapporto sessuale abbia acconsentito a compiere o a subire l’atto sessuale, ma è necessario accertare se tale consenso non si configuri quale conseguenza di una strumentalizzazione della inferiorità della vittima da parte dell’autore del fatto, che abbia sfruttato le condizioni di minorata capacità di resistenza o di comprensione della natura dell’atto da parte del soggetto passivo mediante una condotta di induzione, consistente nel convincimento del minore a sottostare ad atti che diversamente non avrebbe compiuto, e di abuso che si verifica quando le condizioni di menomazione – che possono dipendere sia dal limitato processo evolutivo, mentale e culturale sia dalla minore età accompagnata da una compromessa situazione individuale – sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona che, versando in una situazione precaria, viene ridotta a mezzo per soddisfare l’altrui libidine. […] Dunque, deve essere fatto rientrare nella categoria dell’induzione mediante abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima il procedimento di graduale ‘sessualizzazione’ operato nel tempo da un soggetto in posizione di dominio, allo scopo di condizionarne la libertà (Cass. pen., sez. III, n. 44171, dep. 19.09.2023; Cass. pen., sez. III, n. 6148, dep. 17.02.2021)”.

Nella pronuncia Cass. pen., Sez. IV, dep. 07.11.2023, n. 44613, il caso sottoposto alla Corte riguardava un uomo ritenuto responsabile di più reati di violenza sessuale, sia consumata che tentata. L’imputato aveva indotto alcune donne ad avere rapporti sessuali con lui, approfittando dello stato di inferiorità psichica delle stesse, anche in ragione dell’ascendente che l’imputato esercitava in quanto persona carismatica all’interno di un gruppo religioso a cui tutte appartenevano, sostenendo di dover compiere alcuni riti a contenuto sessuale di tipo ‘esorcistico’ al fine di scacciare la presenza del diavolo dal corpo delle donne.

La difesa dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione contro la condanna per violenza sessuale approfittando della condizione di inferiorità fisica o psichica (art. 609 bis, II comma, n. 1) nei riguardi di una delle donne, in quanto mancherebbe un’accertata condizione di inferiorità, documentata da certificati medici circa lo stato di salute fisico o psichico. Inoltre, ha lamentato la falsa applicazione dello stesso articolo in quanto non avrebbe mai fatto ricorso a violenza o minaccia nei confronti delle persone offese, ritenendole consenzienti alle pratiche di rito tra loro preventivamente stabilite.

La Corte ha rigettato il ricorso, confermando quanto indicato dalla corte territoriale, ritenendo sussistente e provata la condizione di soggezione della donna, stabilendo che: “Non è necessaria una situazione di rilevanza clinica o medica, sottolineando le ragioni della difficolta personale della stessa, che aveva una figlia con un handicap e che sospettava di essere tradita dal marito e che si era confidata con l’uomo, il quale la aveva inizialmente sostenuta con preghiere e poi progressivamente la aveva convinta di essere posseduta dal demonio e che il modo per farlo uscire dal suo corpo era porre in essere pratiche sessuali con lui”.  Inoltre, i giudici hanno stabilito che: “in tema di violenza sessuale ai danni di soggetti che si trovano in stato di inferiorità fisica o psichica, l’induzione sufficiente alla sussistenza del reato non si identifica solamente nell’attività di persuasione esercitata sulla persona offesa per convincerla a prestare il proprio consenso all’atto sessuale, bensì consiste in ogni forma di sopraffazione posta in essere senza ricorrere ad atti costrittivi ed intimidatori nei confronti della vittima, la quale, non risultando in grado di opporsi a causa della sua condizione di inferiorità, soggiace al volere dell’autore della condotta, divenendo strumento di soddisfazione delle voglie sessuali di quest’ultimo (Cass. pen., sez. IV, n. 40795, dep. 31.09.2008)“.

Nella pronuncia Cass. pen., Sez. III, dep. 18.10.2023, n. 42493, il caso sottoposto alla Corte può essere così riassunto: l’imputato è stato condannato perché, con più azioni esecutive e con condotte reiterate, agendo con atti insidiosi e repentini, sia con violenza che con induzione – abusando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica della persona offesa al momento del fatto – costringeva in più occasioni una ragazza, minorenne all’epoca dei fatti, figlia della sua dipendente, impiegata presso il suo studio di architettura, a subire atti sessuali. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato. La Corte di appello ha ritenuto che sussista l’ipotesi di cui all’art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1, perché la persona offesa era in una condizione di inferiorità psichica al momento del fatto, era minorenne e la figlia di una dipendente segretaria del ricorrente. Secondo la corte di secondo grado, tali circostanze di fatto consentono di ritenere che la persona offesa era in una condizione di vulnerabilità. L’abuso si sarebbe concretizzato nell’uso della posizione di forza dell’uomo, quale datore di lavoro della madre della persona offesa, tanto che i fatti sono avvenuti proprio nello studio professionale dell’uomo; l’induzione è avvenuta mediante l’attività subdola di far passare in gesti di affetto i toccamenti nelle zone erogene e le visibili erezioni dell’uomo concomitanti al compimento dei toccamenti.

La Suprema Corte, ha rigettato il ricorso ed ha confermato la decisione del secondo grado stabilendo che: “in tema di violenza sessuale, la condizione di inferiorità psichica della vittima al momento del fatto, di cui all’art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1, può prescindere da una patologia mentale, potendo dipendere anche dal limitato processo evolutivo mentale e culturale ovvero dalla minore età accompagnata da una situazione individuale e familiare che rendano la persona offesa vulnerabile alle richieste dell’agente”.

Ancora, in Cass. pen., Sez. III, dep. 17.02.2021, n. 6148, nel caso sottoposto alla Corte, il Tribunale di Roma, all’esito di giudizio abbreviato, ha condannato l’imputato alla pena di anni 7 di reclusione in relazione al reato di cui all’art. 81 c.p., comma 2, art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1), art. 609-ter, comma 1, n. 1), 5) e 5-sexies), perché, abusando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica della figlia adottiva, la induceva a subire atti sessuali consistiti, dal gennaio 2013 all’agosto 2017, in paleggiamenti delle parti intime e dal 2017 in poi in rapporti sessuali anali. La Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha ridotto la pena inflitta. Avverso tale provvedimento l’imputato, tramite il proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento per erronea applicazione dell’art. 609 bis, comma II, n. 1, in quanto mancherebbe la condizione dell’inferiorità fisica o psichica della minore.

I giudici, rigettando il ricorso, hanno stabilito che: “in tema di violenza sessuale, la condizione di inferiorità psichica della vittima al momento del fatto, di cui all’art. 609-bis, comma secondo, n. 1, cod. pen., può dipendere anche dalla minore età accompagnata da una situazione familiare che renda la persona offesa vulnerabile alle richieste dell’agente o da una condizione di menomazione strumentalizzata per accedere alla sfera intima della persona minore, così ridotta a mezzo per soddisfare l’altrui libidine”. La Corte ha anche sostenuto che: “la vulnerabilità della vittima rilevante ai fini della configurabilità dell’abuso della sua condizione di inferiorità vada valutata sul piano oggettivo, indipendentemente, cioè, dalle cause che l’hanno generata; con la conseguenza che il reato di violenza sessuale mediante induzione si configura anche nel caso dell’approfittamento di una condizione di vulnerabilità preesistente o comunque indipendente rispetto alla condotta del reo.”

Nella sentenza Cass. pen., Sez. III, dep. 13.10.2021, n. 37129 un uomo era stato ritenuto responsabile del reato di violenza sessuale, ex art. 609-bis c.p., commi 1 e 2, perché abusando delle condizioni di inferiorità fisica e psichica di una ragazza la costringeva, in tempi diversi, a compiere e subire atti sessuali. Nei motivi del ricorso la difesa dell’imputato lamentava che la Corte di appello aveva confermato il giudizio di responsabilità penale dell’imputato perché sarebbe stata raggiunta la prova della condotta di induzione perpetrata in danno della persona offesa con valutazioni illogiche, contraddittorie e disancorate dalle risultanze istruttorie, in quanto la persona offesa era una persona maggiorenne che appariva potersi muovere con discreta autonomia.

La Corte, nelle motivazioni della sentenza, ha ribadito che in particolare, il percorso argomentativo ha preso le mosse dalle condizioni di palese disabilità intellettiva della persona offesa (ragazza affetta da ritardo cognitivo medio e con visibile “disformia facciale”) ed è stato evidenziato che la condotta induttiva dell’imputato (con un differenziale di età di ben trent’anni in più rispetto alla vittima), era consistita nello sfruttamento del deficit cognitivo della stessa, con ripetuti contatti a mezzo Facebook al fine di acquisire sempre maggiore intimità con lei, fingendo un reale interesse affettivo, facendosi inviare foto di nudo ed ottenendo due appuntamenti (convincendola di voler solo fare conversazione), durante i quali aveva posto in essere gli atti sessuali contestati.

I giudici, rigettando il ricorso, hanno sottolineato che: “Va ricordato che, in tema di violenza sessuale su persona che si trova in stato di inferiorità fisica o psichica, l’induzione a compiere o a subire atti sessuali si realizza quando, con un comportamento attivo di persuasione sottile e subdola, l’agente spinge, istiga o convince la vittima ad aderire ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto”. E ancora: “l’induzione punibile, attuata mediante l’abuso, non si configura come attività di persuasione ma come una vera e propria sopraffazione nei confronti della vittima, la quale non è in grado di aderire perché (realmente) convinta, ma soggiace al volere del soggetto attivo, ridotta a strumento di soddisfazione delle sue voglie”.

La Corte aveva sancito lo stesso principio di diritto in Cass. pen., Sez. III, dep. 11.11.2020, n. 31512. Il caso sottoposto alla Corte consisteva in una violenza sessuale di gruppo ex art. 609-octies c.p. Secondo i giudici di merito, uno degli uomini avrebbe indotto le vittime a compiere e subire atti sessuali presentandosi come persona dotata di particolari capacità nel campo esoterico, in grado di fornire supporto spirituale e di liberare dal ‘malocchio’, e prospettando alle stesse gravi ed imminenti pericoli nel caso non avessero acconsentito alle sue richieste ed indicazioni. La difesa dell’uomo ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello e tra i motivi ha denunciato la  violazione di legge, in riferimento all’art. 609-bis c.p., con riguardo alla ritenuta sussistenza di una condotta di abuso delle condizioni di inferiorità psichica delle persone offese al momento del fatto.

Nei motivi del ricorso si deduce che la sentenza impugnata, con riferimento a tutti i fatti di reato, ha accolto una nozione erronea di inferiorità psichica e di consenso agli atti sessuali di persona in condizioni di inferiorità psichica. Nel caso di specie, infatti, le condizioni di inferiorità psichica non erano collegate ad alcuna certificazione medico/clinico, e ciò avrebbe influito sull’effettiva capacità degli imputati di percepire la sussistenza di queste.

La Corte, rigettando il ricorso, ha stabilito, in primo luogo, che ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 609-bis c.p., comma II, n. 1, sia “necessaria una condotta di induzione a compiere o a subire atti sessuali, la quale si realizza quando, con un comportamento attivo di persuasione sottile e subdola, l’agente spinge, istiga o convince la vittima ad aderire ad atti sessuali che diversamente non avrebbe compiuto”.

Nella sentenza è, inoltre, affermato che: “nelle condizioni di inferiorità psichica vi rientrano anche quelle che, prescindendo da patologie mentali, siano tali da determinare una posizione particolarmente vulnerabile della vittima”. Puntualizzando che “la condizione di inferiorità psichica può dipendere, invece che da una precisa patologia, anche dal limitato processo evolutivo mentale e culturale ovvero dalla minore età accompagnata da una situazione individuale e familiare che rendano la persona offesa vulnerabile alle richieste dell’agente”.

  • “Caso di minore gravità” nel reato di violenza sessuale – art. 609 bis, III comma, c.p.

“Per l’applicazione dell’art. 609 bis, III comma (caso di minore gravità), deve essere condotta una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla persona offesa, le condizioni fisiche e mentali, le sue caratteristiche psicologiche, l’età, così da poter valutare se la libertà sessuale sia stata compressa in maniera non grave, e che il danno arrecato anche in termini psichici sia stato contenuto”.

Nella pronuncia Cass. pen., Sez. III, dep. 27.12.2023, n. 51434 il fatto riguardava un uomo che in esito a rito abbreviato condizionato, veniva ritenuto responsabile del reato di violenza sessuale aggravata di cui all’art. 609-bis c.p. e art. 609-ter c.p., n. 1) perché in più occasioni compiva atti sessuali con abuso di autorità ai danni di una ragazza, minore degli anni quattordici. Il giudice territoriale condannava l’imputato alla pena di anni 5 di reclusione, lo dichiarava interdetto dai pubblici uffici per la durata di anni 5 ed in stato di interdizione legale durante l’esecuzione della pena.Successivamente la Corte di appello di Venezia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riduceva la pena inflitta all’imputato revocando la pena accessoria della interdizione legale. Avverso tale sentenza veniva proposto ricorso in Cassazione. Tra i motivi del ricorso, il ricorrente lamentava la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della fattispecie attenuata di cui all’art. 609-bis c.p., comma III, negata dalla Corte di Appello.

 La Corte ha ritenuto il ricorso inammissibile e ha ritenuto che ai fini della configurabilità della circostanza per i casi di minore gravità, prevista dall’art. 609-bis c.p., comma III, deve farsi riferimento “ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, le sue caratteristiche psicologiche in relazione all’età, così da potere ritenere che la libertà sessuale della persona offesa sia stata compressa in maniera non grave, e che il danno arrecato alla stessa anche in termini psichici sia stato significativamente contenuto”.

Sempre la Corte ha ribadito che: Ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità nel reato di violenza sessuale, rilevano i soli elementi indicati dall’art. 133 c.p., comma 1, e non anche quelli di cui al comma 2, utilizzabili solo per la commisurazione complessiva della pena. Ciò, in altri termini, comporta che il giudice deve tener conto della gravità del reato, desunta:

1) dalla natura, dalla specie, dai mezzi, dall’oggetto, dal tempo, dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione;

2) dalla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;

3) dalla intensità del dolo o dal grado della colpa”.

Sul punto la Corte si era già espressa nella pronuncia Cass. pen., Sez. III, dep. 18.09.2020, n. 35695). Il fatto era il seguente: l’imputato è stato ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 609 bis c.p. e art. 609 ter c.p., comma 1, n. 1, ritenuta la circostanza attenuante di cui all’art. 609 bis c.p., comma 3, in regime di prevalenza – condannandolo alla pena di anni tre di reclusione oltre alle pene accessorie di legge – per aver costretto una minore infraquattordicennne a subire atti sessuali, consistiti nella repentina palpazione del sedere.

La Corte ha ritenuto che: Anche al di là della tipologia di atto sessuale compiuto, che, tuttavia, certamente costituisce un parametro oggettivo – (vanno considerate) le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, l’occasionalità o la reiterazione delle condotte nei riguardi del medesimo soggetto passivo. Tutti questi elementi vanno in particolare analizzati nell’ottica del principale giudizio che dev’essere al proposito compiuto, quello volto ad accertare il grado di compressione della libertà sessuale così come il danno arrecato alla vittima anche in termini psichici”.

Secondo i giudici, nel caso di specie, nello scrutinare il motivo d’appello con cui si chiedeva una maggiore riduzione della pena in forza della riconosciuta circostanza attenuante speciale, è mancato proprio tale ultimo, qualificante, giudizio, non essendo stata in alcun modo considerata la gravità del danno cagionato alla persona offesa, con conseguente violazione dell’art. 132 c.p. e art. 133 c.p., comma 1, n. 2). I giudici hanno indicato, inoltre, che “è stato illogicamente dato rilievo negativo ad un elemento, la repentinità del gesto di palpazione del gluteo, che, se indubbiamente vale ad integrare la natura violenta dell’occasionale atto sessuale, certo non lo qualifica in termini di marcata gravità alla luce dei criteri più sopra riportati”. La sentenza è stata, pertanto, annullata sul punto e rinviata per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Firenze, al fine di attenersi ai principi formulati nella sentenza.

Nella pronuncia Cass. pen., Sez. III, dep. 21.02.2023, n. 7231 la Suprema Corte ha deciso su di un caso di violenza sessuale commessa dal datore di lavoro in danno di dipendenti. Nei gradi precedenti era stato deciso che osta al riconoscimento della diminuente della minore gravità di cui all’art. 609-bis, III comma, c.p. così come delle attenuanti generiche, l’approfittamento dello status di datore di lavoro. Il soggetto ritenuto responsabile di violenza sessuale ha proposto ricorso per cassazione e tra i motivi del ricorso ha dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine al diniego della circostanza attenuante del fatto di minore gravità di cui all’art. 609-bis c.p., III comma. Nel ricorso è indicato che la qualità degli atti compiuti, il grado di coartazione delle persone offese, la mancanza di gravità del danno psico-fisico cagionato alle stesse, non ostava alla qualificazione del fatto in termini di minore gravità, non rilevando la circostanza che l’imputato fosse il datore di lavoro delle vittime.

La Corte ha sostenuto che tale motivo è manifestamente infondato ed ha ritenuto che: “Ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del fatto di minore gravità, deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali di questa, le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, così da potere ritenere che la libertà sessuale sia stata compressa in maniera non grave, così come il danno arrecato alla vittima anche in termini psichici”. I giudici hanno indicato che la Corte di appello aveva correttamente escluso la minore gravità del fatto sia per l’approfittamento da parte dell’imputato del proprio status di datore di lavoro, sia per le modalità delle condotte, giunte a toccamenti insistiti delle parti intime e a tentativi di farsi toccare il pene, se non di realizzare congiunzioni carnali vere e proprie. La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso.

Nella sentenza Cass. pen., Sez. III, dep. 30.05.2023, n. 35303 la Corte ha deciso su di un caso di violenza sessuale perpetrata da un docente, all’interno di un istituto scolastico, in danno di allieve. L’imputato era stato condannato per il reato di cui all’art. 609-bis c.p., art. 609-ter c.p., comma 1, n. 5-bis), art. 61 c.p., n. 9), per avere, mediante abuso di autorità, svolgendo la professione di insegnante di fotografia presso un liceo artistico, costretto una studentessa minorenne a subire atti sessuali, conducendola nella camera oscura del laboratorio fotografico, ritraendola in fotografia insieme a lui, toccandola, baciandola e contemporaneamente toccandosi il pene, avendo commesso il fatto con abuso di poteri e violazione dei doveri inerenti la pubblica funzione di docente. Avverso la sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento. Tra i motivi del ricorso si lamentano la violazione dell’art. 609-bis c.p., comma III, e vizi della motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante ivi prevista, sul rilievo che la stessa sarebbe stata esclusa unicamente in forza della relazione fiduciaria intercorrente fra le parti, senza considerare l’entità della compressione della libertà sessuale della pretesa vittima.

La Corte ha ritenuto tale motivo di doglianza fondato ed ha stabilito che: “In tema di violenza sessuale, non è di ostacolo al riconoscimento della circostanza attenuante speciale del fatto di minore gravità di cui all’art. 609-bis, III terzo, cod. pen., il fatto che il reato sia commesso mediante abuso di autorità”. I giudici hanno anche indicato che: “Deve rilevarsi che il riconoscimento della circostanza attenuante (art. 609 bis, III comma) non è di per sè escluso dall’esistenza di un rapporto fiduciario fra reo e vittima, perchè la stessa prescinde dal profilo soggettivo, richiedendo la sola valutazione dell’oggettività del fatto e, in particolare, del livello di compromissione della libertà sessuale della vittima e delle eventuali conseguenze della stessa”.

Nella sentenza Cass. Sez. III, n. 40559, dep. 10.11.2021, l’imputato era stato condannato per il reato di cui all’art. 61 c.p., n. 9), art. 81 c.p., comma 2, art. 609-bis c.p., art. 609-ter c.p., comma 2, art. 609-septies c.p., per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, commesse anche in tempi diversi, costretto una minore che, al momento dei fatti era minore degli anni dieci, a compiere e subire atti sessuali, consistiti in palpeggiamenti dei genitali e del fondoschiena denudati; con l’aggravante di avere commesso il fatto con abuso di poteri e in violazione di doveri inerenti il pubblico servizio da lui espletato, ovvero quello di collaboratore scolastico presso l’istituto scolastico frequentato dalla minore.

 Avverso la sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento. Tra i motivi del ricorso si prospettavano la violazione dell’art. 609-bis c.p., comma III relativamente al mancato riconoscimento dell’attenuante speciale della minore gravità. La difesa ha ritenuto integrata l’ipotesi di minore gravità ex art. 609-bis c.p., comma III, per la lieve compromissione della libertà sessuale del minore, nonché per la lieve entità della vicenda delittuosa, connotata da mancata consumazione di un rapporto sessuale completo (essendo consistita la violenza sessuale in fugaci toccamenti del fondoschiena e dei genitali), occasionalità e limitato numero degli episodi, e pone l’accento sull’effettiva consistenza lesiva delle condotte.

La Suprema Corte ha ritenuto tali motivi fondati. La Corte ha indicato che la Corte d’appello non ha valutato correttamente la gravità del fatto, il quale si caratterizzerebbe per la mancata consumazione di un rapporto sessuale completo, minima invasività degli atti, occasionalità e brevità del lasso temporale in cui si sono consumate le condotte, e che, pertanto, è illegittima l’esclusione dell’attenuante prevista dal III comma dell’art. 609 bis.

Secondo i giudici, la Corte d’appello: “Nel definire “turpe” la condotta del ricorrente, non ha esplicitato gli elementi in cui tale connotazione si sarebbe sostanziata, facendo esclusivo riferimento alla tipologia di atti sessuali posti in essere dall’imputato (per cui) l’azione sessuale si è direttamente rivolta agli organi sessuali del minore – ed omettendo qualunque considerazione sugli effetti che tali condotte avrebbero in concreto prodotto sulla sfera psicologica ed emotiva del minore”.

Quanto alla compatibilità tra l’applicazione del caso di minore gravità, l’abuso di autorità ex art. 609 bis, I comma, e la circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p. n. 9 (violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione), i giudici hanno stabilito: “Non può costituire elemento ostativo alla concessione della circostanza attenuante speciale de qua (III comma, art. 609 bis), perché costituisce elemento costitutivo sia del reato di cui all’art. 609-bis c.p., comma 1, sia della circostanza aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 9. E la sua valutazione anche ai fini della esclusione della circostanza della minore gravità integra una violazione del principio del ne bis in idem sostanziale. Infatti, continuano i giudici: “deve farsi riferimento ad una valutazione globale del fatto, nella quale assumono rilievo i mezzi, le modalità esecutive, il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e psicologiche di quest’ultima, anche in relazione all’età, mentre ai fini del diniego della stessa attenuante è sufficiente la presenza anche di un solo elemento di conclamata gravità”.

  • Credibilità della persona offesa nel procedimento per violenza sessuale, art. 609 bis c.p.

In tema di violenza sessuale, il giudice può trarre il proprio convincimento circa la responsabilità penale anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni”.

In Cass. pen., Sez. III, Sent., dep. 05.04.2024, n. 13831, la Corte è stata investita del seguente caso: un uomo è stato ritenuto responsabile, in primo e secondo grado, di violenza sessuale a danno delle due figlie minorenni della sua compagna. La difesa dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione denunciando vizio di motivazione in relazione alla valutazione di credibilità e attendibilità delle dichiarazioni rese dalle persone offese. In particolare, i difensori hanno indicato che sia stata data unica rilevanza alle dichiarazioni delle due ragazze senza cercare elementi di prova alla base delle loro testimonianze.

La Corte ha ritenuto il ricorso infondato ed ha sostenuto: “Secondo il costante orientamento di questa Corte, il Giudice di merito può trarre il proprio convincimento circa la responsabilità penale anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità, senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni (Cass. Sez. Un., sent. n.41461 del 19.07.2012)”.

  • Ammissione della persona offesa al gratuito patrocinio a spese dello Stato nel reato di violenza sessuale, art. 609 bis c.p.

In materia di violenza sessuale la persona offesa è sempre ammessa al gratuito patrocinio a spese dello Stato anche in deroga ai limiti di reddito previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115”.

In Cass. pen., Sez. IV, Sent., dep. 03.04.2024, n. 13398, la Corte è stata investita del seguente caso: una donna persona offesa dal reato di violenza sessuale ex art. 609 bis aveva applicato per ottenere il gratuito patrocinio a spese dello Stato senza allegare alcuni documenti, quali il proprio codice fiscale e le generalità dei familiari conviventi. Il Tribunale di prime cure aveva rigettato l’istanza in quanto l’autocertificazione non poteva ritenersi conforme al modello legale di cui all’art. 79, lett. a) e b) del D.P.R. n.115 del 2002. Avverso la decisione la donna ha proposto ricorso per cassazione attraverso i suoi difensori. La Corte ha ritenuto fondato il motivo del ricorso.  

I giudici hanno stabilito che: “E’ stato già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità (Cass. pen.,Sez.IV, sent. n. 13497 del 15.02.2017) che la persona offesa da uno dei reati elencati dall’art. 76, comma quarto – ter, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, è sempre ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dallo stesso articolo. […] In mancanza di una espressa disposizione legislativa, il giudice non potrebbe negare l’ammissione al beneficio solo sulla base della mancata allegazione della dichiarazione sostitutiva di certificazione, da parte dell’interessato, attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste dall’art. 76 cit., dato che la norma in parola (il ridetto comma 4-ter) non individua massimi reddituali idonei ad escludere il diritto in argomento; sicché la produzione di tale attestato s’appalesa del tutto superflua e, perciò, la sua mancanza è inidonea a fondare una pronuncia di rigetto”.

La Corte ribadisce che: “Si è altresì affermato che la ratio di tale previsione risiede nella esigenza di assicurare alle vittime di determinate tipologie di reati, già colpite da situazioni di particolare disagio, un accesso alla giustizia favorito dalla gratuità dell’assistenza legale, con conseguente sostegno ed incoraggiamento a denunciare gli abusi commessi a loro danno. Pertanto, le persone offese di uno dei reati indicati dall’art. 76, comma 4 ter, D.P.R. n.115 del 2002, non hanno alcun obbligo di corredare la richiesta di ammissione al patrocinio a spese dello Stato con l’autocertificazione relativa alla propria situazione reddituale, essendo del tutto ininfluente l’accertamento dei limiti di reddito per la fruizione del beneficio, concedibile sempre, e in deroga ai predetti limiti, in ragione della condizione rivestita dal richiedente”.

  • Scriminante culturale e violenza sessuale

“Nei delitti di violenza sessuale non è ammessa alcun tipo di scriminante culturale tale da far venire meno il dolo e quindi la sussistenza del reato”.

In Cass. pen., Sez. III, Sent., dep. 03.04.2024, n. 13367, la Corte ha deciso sul seguente caso: un uomo è stato condannato dalla Corte d’appello di Lecce per violenza sessuale a danno della moglie. I difensori dell’imputato hanno proposto ricorso per cassazione proponendo, tra i vari, il seguente motivo: il giudice di prime cure ha ritenuto che il ricorrente abbia una concezione “arcaica del rapporto uomo-donna” e che abbia un basso profilo culturale e sociale, senza però considerare che, proprio per tali ragioni, egli aveva presunto il consenso della moglie con cui ha avuto rapporti sessuali consensuali per 25 anni prima degli episodi censurati.

La Corte ha rigettato il ricorso, indicando: “Il ricorrente confonde il dolo con la personale consapevolezza e convinzione dell’imputato in ordine ai limiti esistenti anche nel rapporto tra coniugi, laddove le credenze o il contesto socio-culturale sono del tutto irrilevanti ai fini della sussistenza del reato”.