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I REATI INFORMATICI E LA VIOLENZA DIGITALE DI GENERE: LE CONDOTTE TIPICHE, I RIMEDI LEGALI E LE PROSPETTIVE DI TUTELA di Avv.a Arianna Martinez -Ufficio Legale Coop. Soc. “Be Free”

L’articolo di Arianna Martinez, avvocata che lavora nell’Ufficio Legale della Coop. Soc. “Be Free”, propone un inquadramento dei tipi di violenza di genere digitale più comuni e la risposta dell’ordinamento italiano, soprattutto del diritto penale, a punire questo tipo di violenze.

I mezzi informatici costituiscono strumenti molto comuni per perpetrare violenza di genere nella società contemporanea. L’esistenza di uno “spazio virtuale” – teatro di numerosissime nuove condotte umane in continua evoluzione, di forme di violenza subdole, a volte meno riconoscibili, eppure altrettanto gravi e meritevoli di contrasto – rende inevitabile un costante ripensamento della disciplina penale, che deve dimostrarsi in grado di adattarsi alle nuove forme di criminalità emergenti. I modi in cui il diritto penale si è approcciato al fenomeno sono numerosi e, al fine di comprenderli, è utile delineare brevemente il modo in cui la dottrina penalistica ha tentato di classificare e descrivere i reati informatici.

La nozione di reato informatico / reato cibernetico o «cybercrime» rimanda ad una serie di elementi tipici ricorrenti: la “smaterializzazione”, la “velocizzazione”, la “deterritorializzazione”, l’“ubiquità”, la “detemporalizzazione”[1]. Tali elementi hanno in comune l’effetto di «distaccare», in termini sia concreti che percettivi, l’autore del reato dalla propria stessa condotta, facendo sì che il reato informatico sia sostanzialmente «privo di confini». Ciò determina, oltre ad una ridotta comprensione della gravità delle proprie azioni da parte di chi commette il reato, delle ovvie difficoltà operative quando si tratta di contrastare o prevenire un reato informatico; ciò è provocato soprattutto dalla caratteristica della smaterializzazione, ossia della distanza di luogo e di tempo che intercorre tra il fatto e la persona che lo subisce. Un ulteriore elemento che alimenta la complessità è la capacità moltiplicativa (ossia, la «viralità» e la semplicità con cui un contenuto dannoso può essere inoltrato a uno o più gruppi potenzialmente illimitati di utenti) che determina una maggiore pericolosità di questo genere di reati laddove commessi attraverso i social network (o gli strumenti di comunicazione “virale”, spesso criptati, quali gruppi Whatsapp, Telegram, etc.) oppure tramite il c.d. deep web. A ciò si aggiunge l’invisibilità degli autori del fatto, che trova riconoscimento normativo nella previsione della circostanza aggravante dell’uso degli strumenti informatici[2]. Tale tipologia di aggravante è determinata dal fatto che la persona offesa dal reato non ha modo di “bloccare” materialmente i comportamenti delittuosi subiti.

In sostanza, l’aggressore può rimanere occulto, determinando così danni psicologici altrettanto intensi di quelli conseguenti alle rispettive condotte non “virtuali”. Proprio in ragione delle predette peculiarità i reati informatici di genere ledono, spesso contemporaneamente, una pluralità di beni e diritti giuridicamente tutelati, che attengono direttamente all’autodeterminazione della persona. Fra questi, il diritto alla salute (art. 32 Cost.), alla privacy ed alla tutela dell’immagine (art. 12 Cost.), alla libertà sessuale.

Le considerazioni sociologiche e criminologiche che portano ad inquadrare il fenomeno del cybercrime come una nuova modalità di espressione di violenza di genere hanno sollecitato anche l’intervento dell’Unione Europea, rispetto al controllo e alla repressione di quelle condotte che vedono come persone offese donne e minori. L’U.E. ha perciò trasmesso, a far data dall’anno 2020, diverse comunicazioni nelle quali si fa riferimento – fra gli altri temi sollevati – al problema dell’electronic evidence, ossia dell’acquisizione digitale della prova, invitando gli Stati ad adottare direttive chiare in materia, in modo tale da garantire accessi veloci a prove fondamentali. Veniva esplicitata, in aggiunta, l’intenzione del legislatore europeo di rendere obbligatoria in capo agli operatori del settore privato (piattaforme social) l’attività di monitoraggio e denuncia dei reati perpetrati online ai danni di soggetti vulnerabili, riferendosi prevalentemente ai minori. Ad oggi, tuttavia, sembra che le sollecitazioni dell’Unione Europea in tal senso non siano ancora state accolte in modo unitario ed organico dagli ordinamenti degli Stati membri[3]. Ciò detto, alla eterogeneità del fenomeno seguono diverse e molteplici forme di tutela da parte dell’ordinamento giuridico in Italia – a volte mediante figure delittuose i cui confini sono chiaramente definiti dalla legge – altre volte, dando vita a ipotesi “limite” che restano prive di una risposta sanzionatoria specifica.

Le c.d. aree normative “grigie” sono infatti molteplici – si pensi ad esempio, al confine fra il cyberstalking, ovvero gli atti persecutori compiuti a mezzo informatico e telematico,ed a casistiche meno nitide quali il controllo sistematico dei dispositivi digitali di proprietà della partner – che di per sé non rientra in alcuna fattispecie legale specifica, e potrebbe rilevare penalmente solo qualora vi si aggiungano ulteriori condotte persecutorie e/o maltrattanti. O ancora il c.d. doxing, ovvero, la pratica di cercare e diffondere pubblicamente online informazioni personali e private o altri dati riguardanti una persona, di solito con intento malevolo.

Vi è poi la pratica di impersonare la partner online con finalità diffamatorie con, in questo caso, la possibilità di applicare la fattispecie di reato di sostituzione di persona di cui all’art. 494 c.p.; l’ hate speech sessista, nei confronti del quale non sono previste specifiche forme di tutela, dovendosi quindi ricorrere a fattispecie più generiche, come la diffamazione di cui all’art. 595 c.p. o l’art. 406 bis c.p., che punisce la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. Si pensi poi alle diverse forme di violenza sessuale digitale ed al legame fra queste ultime e fenomeni come il cyberflashing (l’invio non richiesto di immagini sessualmente esplicite). Questa condotta attualmente risulta punibile prevalentemente tramite l’applicazione della fattispecie di molestia ex art. 660 c.p.[4], fatte salve poche sentenze che meglio si approfondiranno di seguito, che forniscono un diverso inquadramento di tale casistica.

Poiché ciascuno di tali fenomeni meriterebbe un approfondimento specifico, è utile in questa sede soffermarsi sull’esempio più lampante di come il legislatore abbia tentato di inquadrare fenomeni nuovi, fornito dalla legge 19 luglio 2019, n. 69 (la ben nota legge “Codice Rosso”), che ha introdotto all’art. 612 ter del nostro Codice penale una fattispecie denominata «Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti»[5]. In base al testo normativo di riferimento, individuiamo due tipi di condotte che determinano la commissione di tale reato: – ricevere il materiale da parte del mittente originario (ossia da parte del soggetto consensualmente rappresentato) e ricondividerlo senza il suo consenso; – ricevere il materiale non direttamente dal soggetto rappresentato, ma dal primo destinatario e condividerlo ulteriormente senza il consenso della persona ripresa. La norma di cui all’art. 612 ter c.p. presenta alcuni evidenti pregi: si deduce chiaramente la volontà del legislatore di anticipare la soglia di punibilità rispetto ad altre figure di reato simili. Infatti, non è richiesta l’effettiva conoscenza da parte di una pluralità di utenti del materiale illecitamente diffuso come nella diffamazione (art. 595 c.p.), né, come per lo stalking (art. 612 bis c.p.), il determinarsi nella persona offesa di uno stato d’ansia o timore per l’incolumità propria e/o di un prossimo congiunto.

Tuttavia, il reato così come concepito dal legislatore, ha determinato non poche difficoltà operative. Una prima criticità risiede nel concetto di consenso della vittima, specialmente per quanto attiene a quelle ipotesi in cui esso sia inizialmente reso, ma venga successivamente revocato. In un simile caso, ad eccezione di una revoca esplicita, potrebbe non essere agevolmente accertabile che l’autore del reato abbia effettivamente avuto conoscenza di tale diversa volontà.
Ancora, per quanto riguarda i c.d. “secondi distributori”, suscita perplessità la previsione in base alla quale debba sussistere in capo a questi ultimi un dolo specifico di arrecare un danno alla vittima, elemento in assenza del quale la punibilità è esclusa e che mette pertanto a serio repentaglio l’effettiva tutela della persona offesa.

Ancora, altri problemi sorgono in riferimento alle rappresentazioni diverse da quelle in formato foto/video, si pensi ad es. alle rappresentazioni acustiche o alle immagini virtuali, che sono tutelate solo dalle norme sulla pornografia minorile (artt. 600 ter e ss. c.p.) e, dunque, solo quando sono coinvolti soggetti minorenni.
Una simile lacuna potrebbe determinare difficoltà di tipo applicativo, come nel caso dei c.d. deepfake, recentemente divenuto d’interesse mediatico. I deepfake consistono infatti in “foto, video e audio creati grazie a software di intelligenza artificiale (AI) che, partendo da contenuti reali (immagini e audio), riescono a modificare o ricreare, in modo estremamente realistico, le caratteristiche e i movimenti di un volto o di un corpo e a imitare fedelmente una determinata voce”[6]. Tale tecnologia viene spesso utilizzata per creare contenuti pornografici “artificiali” sovrapponendo foto o video della vittima a rappresentazioni di nudo, che poi vengono diffusi a fini vendicativi dall’ex partner, o comunque a scopo lesivo/denigratorio nei confronti di donne e minori. L’attuale formulazione dell’art. 612 ter c.p., come sopraindicato, non fa alcun riferimento a contenuti multimediali creati digitalmente o comunque “solo virtuali”, ed in virtù del principio di tassatività della norma incriminatrici e al divieto di analogia in malam partem, di cui all’art. 25 Cost., dall’art. 1 c.p. e dall’art. 14 delle Preleggi, sembra difficile far rientrare il “porno deepfake” nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 612 ter c.p.[7]

Un altro snodo critico è quello della responsabilità delle piattaforme online.
Sovente, infatti, l’Internet Service Provider (ISP) o l’Host Provider (HP) vengono a conoscenza di un illecito commesso sulla propria piattaforma e non fanno nulla per impedirlo e ciò ha ripercussioni anche dal punto di vista investigativo, non fornendo le informazioni richieste a causa di gap normativi che prevedono tempistiche strettissime per effettuare le richieste e per attivare rogatorie internazionali nel caso di aziende con sede all’estero. Questo determina un pericoloso vuoto di tutela per le vittime di reati digitali.

Una nota positiva in tal senso è costituita da una recente iniziativa in Italia del Garante per la protezione dei dati personali, che ha attivato un servizio online che può essere utilizzato per presentare una segnalazione al Garante stesso, nel caso in cui “l’interessato – anche se minore ultraquattordicenne – abbia il fondato timore di ritenere che registrazioni audio, immagini o video o altri documenti informatici a contenuto sessualmente esplicito che lo riguardano, destinati a rimanere privati, possano essere oggetto di invio, consegna, cessione, pubblicazione o diffusione attraverso piattaforme digitali senza il suo consenso”[8].  L’Autorità, esaminata la conformità della segnalazione ai presupposti indicati nella norma di riferimento, adotta il provvedimento volto ad impedire l’eventuale diffusione del materiale indicato e lo trasmette alle piattaforme digitali interessate.

Non sono poche, pertanto, le difficoltà ancora persistenti nel contrasto alle nuove tipologie di violenza digitale.
Un esempio recente è il caso di cronaca avvenuto nel Regno Unito di una violenza sessuale in danno di una ragazza minorenne ad opera di un gruppo di uomini maggiorenni agita nel corso di un’esperienza immersiva di gaming (all’interno di una piattaforma di realtà virtuale o aumentata -VR/AR-)[9]. Nel caso di specie, sebbene la persona offesa non avesse riportato segni fisici, e non vi fosse stato alcun contatto materiale con gli uomini coinvolti, il trauma subito è stato ritenuto dalle autorità inquirenti paragonabile a quello di chi subisce violenza sessuale “nel mondo reale”, in termini di impatto psicoemotivo.

A fronte di un simile fenomeno, gli operatori e le operatrici del diritto non possono non interrogarsi sulla risposta che l’ordinamento italiano potrebbe fornire in un caso analogo. A tal fine si richiama una recente giurisprudenza nostranasecondo cui «Ai fini della definizione di atti sessuali di cui all’art. 609-bis c.p. (violenza sessuale), non è indispensabile il requisito del contatto fisico diretto con il soggetto passivo, ma è sufficiente che l’atto abbia oggettivamente coinvolto la corporeità sessuale della persona offesa e sia finalizzato e idoneo a compromettere il bene primario della libertà dell’individuo nella prospettiva dell’agente di soddisfare o eccitare il proprio istinto sessuale» (Cass. pen., Sez. III, sent. n. 41577/23). Ancora, la Suprema Corte, nell’affrontare il tema della violenza sessuale tentata e dei relativi limiti di punibilità, ha osservato che «E’ configurabile il tentativo del delitto di violenza sessuale quando, pur in mancanza del contatto fisico tra imputato e persona offesa, la condotta tenuta dal primo denoti il requisito soggettivo dell’intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale»  (cfr. Cass. pen., Sez. II, sent. n. 17717/22).

Si può quindi ritenere che, al di là di alcune pronunce, dove la mancanza di  un contatto fisico tra l’agente e la “vittima” in senso giuridico, ossia la persona offesa dal reato, non è di per sé idonea ad escludere l’applicazione del reato di violenza sessuale ex art. 609 bis c.p., allo stato attuale, non vi è certezza in merito alla possibile risposta giudiziaria che il nostro ordinamento fornirebbe in un caso simile, attesa la necessità, nel reato di violenza sessuale, del coinvolgimento della “corporeità sessuale”. Questo elemento non può essere facilmente definito posto che la persona offesa, come nel caso avvenuto in Regno Unito, è stata lesa nella sua rappresentazione virtuale (c.d. avatar) e sarebbe perciò necessario allargare e/o cambiare la valutazione di lesione della libertà di autodeterminazione e le modalità di condotta punibili alla luce di quanto avvenuto tra i soggetti coinvolti.

In conclusione, oltre che attendere di testare l’efficacia nel tempo degli strumenti normativi di tutela ad oggi esistenti o la loro applicazione, si auspica che non si deleghi alle sole norme penali il contrasto del fenomeno, ma che si implementi – con azioni preventive – la consapevolezza degli effetti della violenza digitale di genere, solo apparentemente “virtuale” ma in grado di determinare danni concreti a chi la subisce.


[1] PICOTTI, L., Sicurezza informatica e diritto penale, in DONINI, M., PAVARINI, M., Sicurezza e diritto penale, Bologna (2011) p. 217 ss.

[2] Presente, ad esempio, al II comma dell’art. 612 bis c.p., che punisce lo stalking: “La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”.

[3] Comunicato stampa del Consiglio Europeo del 28 ottobre 2020 in https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2020/10/28/combating-child-abuse-online-council-ready-to-negotiate-a-temporary-measure/ . A seguito del comunicato stampa, il Consiglio Europeo ha implementato un sito web dove sono disponibili materiali e report contro la violenza di genere online: https://www.coe.int/en/web/cyberviolence/home

Il Parlamento dell’Unione Europea ha chiesto alle altre istituzioni europee di promulgare una direttiva per armonizzare gli strumenti di tutela contro la violenza digitale. La richiesta è stata fatta nel 2021, a seguito del report dello stesso Parlamento sul fenomeno: https://www.europarl.europa.eu/news/en/press-room/20211210IPR19215/gender-based-cyberviolence-parliament-calls-for-eu-law-to-tackle-the-problem . Il Parlamento ha proposto il testo della direttiva al Consiglio e alla Commissione nel 2022: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=CELEX%3A52022PC0105 . La proposta è tuttora in discussione.

[4]Molestia o disturbo alle persone. Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito, a querela della persona offesa, con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516. Si procede tuttavia d’ufficio quando il fatto è commesso nei confronti di persona incapace, per età o per infermità”.

[5]Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000.

La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento.

La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici.

La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza.

Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. Si procede tuttavia d’ufficio nei casi di cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio”.

[6] Garante per la protezione dei dati personali – G.P.D.P. “Deepfake: dal Garante una scheda informativa sui rischi dell’uso malevolo di questa nuova tecnologia”, 2020, https://www.garanteprivacy.it/home/docweb/-/docweb-display/docweb/9512278

[7] Deepfake e revenge porn: punti di contatto (altalex.com), 2021

[8] Il servizio è fruibile tramite il sito ufficiale del Garante: https://servizi.gpdp.it/diritti/s/revenge-porn-scelta-auth

[9] Per approfondimento: Police investigate virtual sex assault on girl’s avatar (bbc.com)).

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