Approfondimento. La qualificazione del consenso nel delitto di violenza sessuale: la recente sent. 8340/2024 della Corte di cassazione che ha cambiato l’orientamento finora applicato
Contributo di Lorenza Grossi, dottoranda in diritto penale presso Università degli studi Roma Tre, dipartimento di Giurisprudenza
1. Il consenso nel delitto di violenza sessuale: coordinate generali
Nel delitto di violenza sessuale – è fatto noto – l’elemento del consenso/dissenso rappresenta il fulcro dell’incriminazione. Come di ogni elemento di fattispecie che attrae su di sé il peso specifico dell’offesa, del consenso/dissenso si è detto tutto ed il contrario di tutto: secondo una certa impostazione, la mancanza di consenso sarebbe elemento esplicito della fattispecie (v. Sez. III pen., 5 ottobre 2017, n. 2400); altro orientamento, che pure intende inserirsi con coerenza in questo filone, ritiene che il dissenso sia elemento presunto dell’art. 609-bis c.p., con la conseguenza ulteriore per cui non sarebbe oggetto di prova da parte della accusa, ma sopporterebbe la prova contraria da parte della difesa.
La valorizzazione del consenso come elemento che integra la fattispecie incriminatrice ha portato ad escludere qualsiasi efficacia ad una sua erronea rappresentazione: se il consenso integra la fattispecie incriminatrice, non troverà applicazione la regola prevista dall’art. 59, quarto comma, c.p. in tema di scriminante putativa, ma verrà applicata la più rigida previsione dell’art. 5 c.p., riassunta dal brocardo ignorantia legis non excusat.
La III sezione della Corte di cassazione, nella sentenza 5 ottobre 2023, n. 8340 (dep. 27 febbraio 2024), ribadisce, invece, altro orientamento, che valorizza l’esclusione del dolo in caso di errore sul fatto.
2. Fatto storico e vicende processuali
La violenza sessuale da cui origina il caso giunto all’attenzione della Corte di cassazione si verifica all’esito di una festa: due ragazzi, dopo aver fatto uso di alcolici, intraprendono delle effusioni e si spostano all’interno di una tenda, dove sarebbero avvenuti dei contatti intimi tra i due.
La piattaforma probatoria è sorretta dalle dichiarazioni della persona offesa, dell’imputato e di un’amica della ragazza, che si trovava anche lei nella tenda, restando di spalle ai primi due.
L’imputato, che sceglie il rito abbreviato, viene assolto dal GUP, il quale ritiene che la ragazza avesse «manifestato adesione agli approcci, “senza volerlo ammettere neppure a sé stessa”, mentre il ragazzo aveva errato nell’interpretazione del consenso» (Cass., sez. III pen., 5 ottobre 2023, n. 8340, punto 4 del Considerato in diritto).
La Corte d’appello, viceversa, ribalta la sentenza di primo grado, senza rinnovare l’istruttoria dibattimentale: l’apparato probatorio resta lo stesso, ma cambia l’interpretazione delle dichiarazioni rese. I presupposti che sorreggono la decisione sono quattro: «a) non esiste il consenso putativo nelle violenze sessuali; b) la giovane non ha espresso (ma non poteva farlo per l’alterazione psicofisica) un consenso cosciente e volontario; c) l’amica ha sentito che la vittima aveva chiesto all’imputato di smetterla; d) l’imputato ha mentito quando ha negato la penetrazione perché aveva confidato a una sua amica che aveva avuto un rapporto non protetto per il quale era disponibile a pagare la pillola del giorno dopo». (Cass., sez. III pen., 5 ottobre 2023, n. 8340, punto 4 del Considerato in diritto).
A far da sfondo alla decisione della Corte d’appello c’è la premessa per cui nella violenza sessuale non solo non sia necessaria alcuna manifestazione espressa del dissenso da parte della vittima, ma anche che solo un consenso validamente prestato (cioè: cosciente e volontario) possa escludere il fatto; viene ribadito, infine, come rispetto al delitto di violenza sessuale non sia ammessa l’esimente putativa del consenso dell’avente diritto, sì che l’errore sul consenso si sostanzia in un errore inescusabile sulla legge penale – in linea con l’orientamento maggioritario sopra menzionato.
È proprio su quest’ultimo punto che la Corte di cassazione, nella pronuncia in commento, sembrerebbe non concordare.
3. L’errore sul consenso: antigiuridicità o colpevolezza?
La Corte di cassazione, valorizzando la qualificazione del dissenso quale elemento costitutivo del fatto, ritiene che il dubbio escluda non già l’antigiuridicità, quanto piuttosto il dolo: si tratterebbe, cioè, di un’ipotesi “tipica” di errore sul fatto (art. 47, primo comma, c.p.).
L’impostazione appare convincente nella misura in cui il dissenso viene legato alla volontà di costringere, secondo le modalità previste dall’art. 609-bis c.p., la vittima a compiere o subire atti sessuali: la costrizione, cioè, comporterebbe in sé la rappresentazione del dissenso della persona offesa; d’altra parte, ad escludere il dolo – più che il “mero” dubbio – dovrebbe essere la erronea rappresentazione del consenso della vittima.
Ad ogni modo, la regola individuata dagli Ermellini è destinata a trovare applicazione anche in tema di onere di allegazione: trattandosi di un elemento “impeditivo”, il rischio per la mancata prova graverebbe sull’imputato. Spetta all’imputato, cioè, allegare e giungere a provare l’errore sul dissenso, non all’accusa.
La questione, però, ad avviso dei giudici di legittimità, deve essere rimessa ad altra sezione della Corte d’appello, perché possa procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale: in casi di reformatio in peius della sentenza di primo grado, infatti, è necessario acquisire tutte le prove che valgano a fondare la condanna.