Iniziato a Roma il processo per il femminicidio di tre donne avvenuto nel quartiere prati il 17 novembre 2022
Come Osservatorio sulla violenza di genere e sulle discriminazioni multiple del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre, insieme alle e agli studenti del corso di Clinica Legale sul contrasto alla violenza di genere e alle discriminazioni multiple attivo nel medesimo dipartimento, abbiamo partecipato alla seconda udienza del procedimento contro G. Dp., imputato per i tre femminicidi avvenuti nel quartiere prati di Roma il 17 novembre 2022. L’udienza si è svolta alla presenza dei difensori di parte e della III Corte d’Assise di Roma presso l’Aula Bunker nella sede della casa circondariale di Rebibbia del Tribunale di Roma.
Come giuriste femministe riteniamo importante seguire il procedimento e porre all’attenzione l’eventuale linguaggio o atteggiamenti processuali sessisti, razzisti, sex workers-fobici e deumanizzanti. Le tre donne rimaste uccise avevano, infatti, origine migrante e lavoravano come sex workers : Martha Castano Torres, Yang Yun Sia e Li Yan Song.
Durante la seconda udienza è iniziato l’ascolto dei testimoni, con l’intervento del Commissario di polizia locale che ha seguito le indagini sino all’arresto dell’imputato; è stato, inoltre, ascoltato altro personale tecnico.
La difesa dell’imputato, in apertura del dibattimento, ha presentato istanza alla corte affinchè il processo si tenga “a porte chiuse”, allo scopo di tutelare la privacy di alcuni teste (ad esempio altri clienti delle lavoratrici uccise) e perchè nel giudizio emergerebbero attività contro la pubblica morale come la prostituzione. Gli avvocati di parte civile hanno immediatamente chiesto il rigetto dell’istanza argomentando che il giudizio ha un rilevante impatto pubblico vertendo su tre efferati femminicidi. L’istanza dei difensori dell’imputato appare molto grave in quanto suppone che la privacy dei testimoni e la presunta pubblica morale abbiano più rilievo dell’assoluto disvalore del femmicidio e dall’importanza di contrastarlo pubblicamente. I giudici hanno rigettato l’istanza stabilendo che il processo sarà pubblico ma che saranno utilizzati tutti gli strumenti, già previsti dall’ordinamento, adatti a tutelare la privacy dei testimoni che non vogliano essere riconosciuti.
Le e gli avvocati di parte civile presenti difendono gli interessi dei familiari e congiunti delle persone uccise e, inoltre, è costituita l’Associazione italiana vittime di reato, che ha sottolineato come le vittime fossero persone vulnerabili in quanto, almeno presuntivamente, soggette a sfruttamento del lavoro sessuale. Tuttavia, non esistono ad oggi o non ne è stata fatta menzione in aula, è bene indicarlo, indagini o procedimenti aperti in tal senso e riteniamo che il coinvolgimento in reati di sfruttamento non sia un elemento rilevante all’interno del procedimento e, anzi, possa diventare un pericoloso argomento di vittimizzazione, stigmatizzazione e deumanizzazione delle persone uccise.
Il linguaggio utilizzato durante l’udienza è stato corretto e mai discriminatorio nei confronti delle donne uccise e dell’attività lavorativa in cui erano coinvolte, anche se non è stato mai esplicitato che fossero lavoratrici e che i femminicidi siano avvenuti durante normali interazioni di lavoro. Riteniamo che questa narrativa sia legata alla stigmatizzazione che colpisce in Italia coloro che svolgono lavoro sessuale il quale non è ritenuto un ‘vero’ lavoro ed è del tutto sprovvisto di forma giuridica e di tutele.
La difesa ha chiesto la perizia psichiatrica per l’imputato il quale è pregiudicato da molti reati precedenti, compresa la violenza sessuale. E’ importante sottolineare che la violenza di genere e la stigmatizzazione del sex work e delle lavoratrici del sesso non deriva certamente dallo stato di salute mentale della cittadinanza ma dalla cultura patriarcale della violenza e della sopraffazione di un genere (maschile) sugli altri e dalla mancanza di educazione a sessualità e affettività sane e consensuali, tutti elementi che riteniamo profondamente radicati nella nostra società. L’intento di questa puntualizzazione non è tanto assumere una prospettiva strettamente ‘punitivista’, riassumibile nella famosa frase ‘buttiamo la chiave’, ma anzi separare e non stigmatizzare la condizione di sofferenza psichica dalla violenza di genere che connota, a nostro avviso, questi terribili femminicidi.
Troppo spesso, soprattutto ad opera di vari commentatori e testate giornalistiche, questi terribili avvenimenti vengono raccontati come ‘raptus’ o ‘momenti di follia’ derivanti da una condizione di disagio psichico. La salute mentale della cittadinanza è questione assolutamente trascurata dal nostro servizio sanitario nazionale e che dovrebbe seriamente essere presa in carico senza stigma o vergogna per coloro che ne soffrono e ha poco a che vedere con i raptus o i momenti di follia narrati dalla stampa. Questi commenti trattano semplicisticamente la salute mentale per creare delle figure mostruose e lontane da una presunta ‘normale’ cittadinanza. Il numero dei femminicidi e i reati di violenza di genere in Italia, assieme a specifiche ricerche, dimostrano che ben pochi autori soffrivano anche di accertati disturbi psichici e, pertanto, queste condizioni e la violenza di genere non sono sovrapponibili. Senza nemmeno consultare i dati relativi al numero di persone con fragilità psichiche prese in carico in tutta l’Italia, possiamo ben immaginare che solo una piccolissima percentuale commetta reati e reati ‘di genere’. E’ il noto psichiatra e studioso Franco Basaglia, che ha combattuto tutta la vita per l’abolizione degli ospedali psichiatrici c.d. ‘manicomi’, a ritenere che la segregazione delle persone con sofferenze di tipo psichiatrico non fa altro che peggiorare il loro stato di salute, creando, inoltre, una distinzione criminalizzante e stigmatizzante tra loro e i c.d. ‘normali’. I ‘matti’, utilizzando il lessico basaliano, vivono ad oggi e devono vivere con tutti gli altri e sottostare alle medesime regole sociali, compresa la possibilità di essere imputati e puniti e valutati considerando la loro pericolosità sociale e, non tanto, la condizione di fragilità psichica che può, solamente in specifici casi accertati nella pratica, aumentarne la pericolosità.
A differenza della condizione di fragilità psichica, che contraddistingue ogni persona in modo diverso e incide sulle sue interazioni con gli altri in modo ogni volta diverso e da valutare caso per caso, la cultura patriarcale della violenza ha invece dei connotati simili ed una visibilità sistemica in tutti gli ambiti relazionali della vita delle donne e delle soggettività LGBTQIA+. E’ solo la cultura patriarcale del possesso e della violenza ad origine dei tanti, troppi reati che si commettono in Italia contro le donne e le soggettività LGBTQIA+, a partire dalle più lievi discriminazioni fino ad arrivare al femminicidio. E’ la stessa cultura patriarcale a stigmatizzare e invisibilizzare il sex work, un lavoro ben radicato ed, anzi, in grande espansione grazie ai nuovi strumenti informatici e che dimostra la persistente richiesta di servizi legati alla sessualità e all’affettività. Invece di marginalizzare e di stigmatizzare chi compie questo essenziale lavoro, essenziale perchè, a ben vedere, tutte le persone (o quasi) hanno bisogno di esprimere in qualche modo la propria corporeità e il proprio desiderio sessuale e affettivo, il sex work viene, di fatto, criminalizzato e osteggiato pubblicamente mettendo a rischio le lavoratrici e stigmatizzando i clienti. Una tale situazione, calata nel più ampio contesto della sistemica violenza contro le donne, non fa che aumentarne la portata e colpire coloro che sono maggiormente marginalizzate.
E’ bene, a nostro avviso, che questo processo venga diffuso pubblicamente, che si parli di quanto accaduto e che si faccia quanto necessario per combattere la cultura della violenza e far crescere la cultura del consenso, dei desideri e di una sana costruzione di relazioni sessuali e affettive tra tutta la cittadinanza andando, inoltre e soprattutto, a imprimere legalità (e quindi tutele) a chi ne è sguarnito come l3 sex workers.