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Il femminicidio, tra violenza domestica e violenza di genere

Una riflessione a partire dalla Cassazione penale sez. I – 12/05/2023, n. 46333

Un uomo uccide con otto coltellate sua moglie, per il timore di una possibile separazione. La Corte di cassazione, riassumendo la vicenda, ritiene che si tratti di un caso tipico di femminicidio.

La vicenda – nel suo nucleo essenziale un tipico “femminicidio”, essendo stata motivata dal timore dell’imputato di essere lasciato dalla moglie, la quale aveva manifestato l’intenzione di separarsi – secondo le dichiarazioni del F. era avvenuta al culmine di un litigio, svoltosi nell’abitazione familiare e generato dalla richiesta dell’imputato di chiamare la madre in vista del Ramadan. Ciò aveva determinato una reazione aggressiva della moglie, che offendeva F. e lo colpiva in corrispondenza della ferita di una recente operazione chirurgica. Sempre secondo la versione difensiva, che è stata resa nell’udienza preliminare del 16/7/2020, la donna aveva puntato un coltello contro il marito, il quale aveva tentato di afferrarle il polso della mano. I ricordi dell’imputato si arrestavano a questo punto, ma dalle evidenze oggettive è emerso che E.A.D. era stata colpita con otto fendenti da arma bianca da punta e da taglio, concentrati nelle regioni antero-laterali del collo; al rinvenimento del cadavere della donna, il coltello era ancora conficcato nel suo collo, in regione antro-laterale sinistra.

La difesa dell’imputato chiede di sollevare questione di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 577, primo comma, n. 1 c.p., il quale prevede che l’omicidio volontario (art. 575 c.p.) sia punito con l’ergastolo se il fatto è commesso contro l’ascendente o il discendente anche per effetto di adozione di minorenne o contro il coniuge, anche legalmente separato, contro l’altra parte dell’unione civile o contro la persona stabilmente convivente con il colpevole o ad esso legata da relazione affettiva.

L’attuale versione dell’aggravante, oggetto di diversi interventi da parte del legislatore per adeguarla ai mutamenti registratisi nel tessuto sociale, è stata introdotta con la legge n. 69 del 2019 (c.d. codice Rosso): per effetto di quest’ultima “riscrittura”, in particolare, gli elementi della stabile convivenza e della relazione affettiva, che nella formulazione precedente dovevano sussistere congiuntamente, sono ora previsti come alternativi. Dalla previsione della pena dell’ergastolo deriva, tra l’altro, l’impossibilità di accedere al giudizio immediato, secondo quanto previsto dall’art. 348, comma 1-bis c.p.p.

La difesa dell’imputato lamenta un difetto di proporzione nella risposta sanzionatoria prevista per l’omicidio a danno del coniuge. Si tratterebbe, sostiene il ricorrente, di una fattispecie meno grave di altre, a partire da quelle previste dal precedente art. 576 c.p., originariamente punita con la pena di morte. A ciò si aggiunga che il progressivo ampliamento dell’aggravante, che attualmente comprende ipotesi molto eterogenee, non sarebbe in linea con l’effettivo disvalore di questi delitti, prevedendo una pena manifestamente sproporzionata.

La Corte di cassazione, anzitutto, ribadisce che la preclusione di cui all’art. 348, comma 1-bis c.p.p. si applica a tutti delitti puniti con l’ergastolo, anche per effetto di circostanze aggravanti. Quanto ai pretesi dubbi di legittimità costituzionale, la pronuncia ritiene del tutto “ragionevole” e “proporzionata” la scelta del legislatore. Gli interventi sull’art. 577, primo comma, n. 1 c.p. si sono resi necessari per aggiornare la sua formulazione alla «mutata sensibilità dei consociati verso il gravissimo fenomeno della violenza domestica e di genere», che la Corte non esita a definire una «vera e propria emergenza sociale italiana». Il legislatore, più esattamente, ha preso in considerazione legami di tipo familiare o sentimentale che determinano una più significativa esposizione a pericolo delle persone offese: l’omicidio a danno del coniuge, in effetti, rappresenta una delle tante espressioni del fenomeno sintetizzato dal neologismo “femminicidio”. La gravità, già in astratto, di questa tipologia di offese rende del tutto congrua la scelta del legislatore, la quale evidenzia una precisa (e insindacabile) linea di politica criminale. La pena dell’ergastolo, del resto, non si applica in maniera automatica, posto che l’entità della pena in concreto dipende pur sempre dagli ordinari criteri che valorizzano la discrezionalità del giudice. Si segnala, in proposito, che la Corte costituzionale, con la sentenza 10 ottobre 2023, n. 197, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 577, terzo comma, del codice penale, nella parte in cui vieta al giudice di ritenere prevalenti le circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, primo comma, numero 2), e 62-bis cod. pen.

Focalizzando la disamina del motivo sulla fattispecie di reato qui concretamente in esame, l’omicidio del coniuge, si osserva che il bilanciamento di valori ed interessi introdotto dalla L. 11 gennaio 2018, n. 4 risponde in pieno alla necessità di aggiornare l’impianto normativo penale alla mutata sensibilità dei consociati verso il gravissimo fenomeno della violenza domestica e di genere, costituente vera e propria emergenza sociale italiana. In tale prospettiva è stata inserita una serie di norme che attribuiscono il giusto riconoscimento alla gravità di crimini perpetrati in contesti familiari o di altre forme di prossimità di vita, ciò costituendo la ratio che ha indotto il legislatore ad estendere a tali diffuse situazioni nevralgiche di particolare esposizione a pericolo delle persone offese il trattamento sanzionatorio previsto per le più gravi ipotesi di omicidio, nelle quali correttamente ora risulta inserito anche l’omicidio in danno del coniuge (una delle tante espressioni del fenomeno indicato con il neologismo “femminicidio”, categoria utile ad un primo ed immediato inquadramento sociologico di tali manifestazioni di violenza) secondo una rimodulazione imposta dalla recrudescenza di tali eventi e dall’acuito allarme sociale che ne deriva. Pertanto, lungi dal costituire delitto di minore rilievo, l’omicidio del coniuge ha trovato con la novella legislativa il giusto inquadramento tra i delitti di maggiore gravità in linea astratta, salva ogni possibilità di graduazione concreta della pena alla luce degli ordinari criteri indicati dagli artt. 132 e 133 c.p., che disciplinano la discrezionalità vincolata del giudice nella determinazione del trattamento sanzionatorio. La descritta impostazione risponde dunque ad una precisa scelta di politica criminale alla quale si è ispirato il legislatore nei suoi interventi legislativi del 2018 e del 2019, in quanto tale insindacabile in questa sede e non sospettabile di illegittimità costituzionale alla luce dei richiamati parametri ex art. 3 Cost. e art. 27 Cost., commi 1 e 3, con riferimento al nuovo art. 577 c.p., comma 1, n. 1, nei termini prospettati dalla difesa dell’imputato, che ha erroneamente paventato una pena rigidamente predeterminata, l’ergastolo, in spregio al principio di massima individualizzazione del trattamento sanzionatorio ed al criterio di proporzione che presiede alla graduazione delle sanzioni in base alla concreta gravità oggettiva e soggettiva del delitto. Si è già detto, infatti, che la comminatoria della pena perpetua non è una imposizione rigida, ma soggetta all’ordinario vaglio di personalizzazione alla stregua dei criteri codicistici che presidiano la discrezionalità vincolata del giudice in detta materia.

Arbitrario e fuori sistema risulta invece il suggerimento del ricorrente che caldeggia il ritorno alla pena della reclusione da ventiquattro a trenta anni per l’omicidio del coniuge, continuando ad usare griglie di comparazione tra omicidi ormai superate dalla realtà sociale e dalla graduazione delle sanzioni imposta dal nuovo corso costituzionale. Il preteso contrasto del trattamento sanzionatorio per l’omicidio del coniuge con i principi di ragionevolezza, proporzionalità e personalizzazione della pena e con la sua finalità rieducativa è radicalmente infondato: non è ravvisabile alcuna manifesta sproporzione, non vi è alcuna “pena adeguata” individuabile in termini diversi da quelli posti con la novella del 2018, dovendosi riconoscere che il legislatore non ha trasmodato per irragionevolezza o arbitrarietà nella scelta discrezionale relativa alla comminatoria della pena perpetua per l’omicidio del coniuge, opzione derivante da un giudizio di grave disvalore della fattispecie astratta, marcatamente superiore a quello che connota la corrispondente fattispecie non aggravata.

Questioni problematiche: il femminicidio, tra violenza domestica e violenza di genere

La sentenza n. 46333 del 2023 della Corte di cassazione si segnala non solo per l’esplicita stigmatizzazione della violenza domestica e della violenza di genere come una emergenza sociale italiana, ma anche per l’impiego, a fini giuridici, del concetto di femmicidio.

Resta invece parzialmente irrisolta la questione relativa alla distinzione tra la violenza domestica e la violenza di genere, che, sembrerebbe, vengono utilizzati come se si trattasse di un’endiadi. Si tratta, per la verità, di due concetti differenti, che anche le fonti internazionali distinguono da un punto di vista definitorio: valga, per tutti, il riferimento all’art. 3 Convenzione di Istanbul. Volendo schematizzare, la violenza domestica si fonda su un elemento meramente oggettivo, costituito dalla particolare relazione, familiare o sentimentale, sussistente tra il reo e la persona offesa. Il concetto di violenza di genere, per contro, si caratterizza per il disvalore espresso da un elemento di tipo soggettivo, costituito dai “motivi” che hanno determinato il reo alla commissione del reato e che, più esattamente, consistono in motivi legati al genere (o, meglio, a discriminazioni legate al genere). Con la violenza domestica, sembrerebbe, si valorizza la vittima e la sua condizione di “vulnerabilità”, derivante dalla sussistenza di un legame personale con il reo che determina, come precisato anche dalla Corte di cassazione, una particolare esposizione a pericolo della persona offesa. La violenza di genere, per contro, sposta il focus sul reo e sulle ragioni che lo hanno determinato alla commissione del reato: il “problema” non è solo e non è tanto la “vulnerabilità” della vittima, ma (soprattutto) il disvalore che caratterizza la condotta del reo.

L’ordinamento giuridico italiano, con disposizioni come quella contenuta nell’art. 577, primo comma, n. 1 c.p., ha certamente introdotto delle forme di tutela differenziata per casi che rientrano nella cornice della violenza domestica, mentre, fino a questo momento, il legislatore ha scelto di non valorizzare, in maniera autonoma ed esplicita, il fenomeno della violenza di genere. Proprio la violenza di genere, tuttavia, rappresenta la “matrice storica” del concetto di femminicidio, che, forse, sarebbe riduttivo “appiattire” del tutto sul paradigma degli omicidi commessi in ambito familiare o in un contesto lato sensu affettivo-sentimentale.

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Feminist Watch
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1 anno fa

Quali sono i rapporti tra violenza domestica e violenza di genere? È possibile (e utile), da un punto di vista normativo, tenere distinti i due fenomeni?

La legislazione penale italiana contiene ormai espliciti riconoscimenti della violenza domestica, specie attraverso apposite circostanze aggravanti, come quella prevista per l’omicidio. Si tratta di una risposta sufficiente?

Da un punto di vista tecnico-giuridico, è più convincente perseguire la strada delle circostanze aggravanti (con un conseguente ampliamento della discrezionalità del giudice nella concreta determinazione della pena) o sarebbe più opportuno affidarsi ad autonome fattispecie di reato?

È possibile attribuire al diritto penale non solo un ruolo repressivo, ma anche di “orientamento culturale”?