Approfondimento. Violenza sessuale e prospettiva intersezionale
Un’ambigua assenza di prospettiva intersezionale in una pronuncia della Corte di Cassazione
Nel 2016 il Tribunale di Chieti aveva condannato un uomo per tentativo di violenza sessuale ex art. 609 bis nei confronti della donna di origine migrante (il cui paese di origine non è specificato) che svolgeva lavoro domestico e di cura a casa della madre di quest’ultimo. L’uomo era stato condannato in quanto i giudici avevano ritenuto tentativo di violenza sessuale il fatto di aver minacciato la donna di licenziamento a meno che non accondiscendesse alle sue richieste di approccio. Il Tribunale aveva, invece, assolto l’uomo per mancanza di prove e usando la formula di “insussistenza del fatto” per un’altra condotta contestata, ovvero un ulteriore tentativo di violenza nei confronti della lavoratrice, questa volta per averla afferrata con violenza, trascinata in camera da letto e tentato di spogliarla al fine di consumare un rapporto sessuale con lei. Nel corso del secondo grado di giudizio, la Corte di Appello de L’Aquila, nella sentenza n. 491 del 22 febbraio 2018 aveva assolto l’uomo anche dalla prima imputazione di tentativo di violenza, a mezzo di minaccia di licenziamento, per insussistenza di prove. La difesa di parte civile della donna ha proposto ricorso per cassazione avverso tale pronuncia in quanto non sarebbero state valutate adeguatamente le testimonianze (testimoni de relato) sulle minacce di licenziamento, poi effettivamente avvenuto. Inoltre, la difesa lamentava che la testimonianza della stessa persona offesa fosse stata valutata come poco attendibile dal giudice di seconde cure. La Suprema Corte, in Cass. pen., Sez. III, Sent. n. 31195/2019 del 16.07.2019, ha dichiarato infondati tutti i motivi proposti dalla difesa, utilizzando motivazioni che possono essere considerate quantomeno ambigue.
I giudici nomofilattici hanno stabilito che la Corte d’Appello non ha, come indicato dalla difesa della donna, mancato di considerare la testimonianza diretta e de relato circa le minacce di licenziamento, ma le ha considerate penalmente irrilevanti. Nella sentenza è infatti indicato che “la Corte non ha messo in dubbio la circostanza che il S. (l’imputato) abbia, con insistenza degna probabilmente di miglior causa, più volte chiesto alla B. (parte offesa) di cedere alle sue profferte sessuali, anche dichiarandosi egli stesso disposto a compensarla materialmente ove lei avesse ceduto a tali inviti, ma ha escluso che siffatte sollecitazioni abbiano superato il limite, moralmente certo deprecabile ma penalmente irrilevante, della grottesca ed inurbana, ma, si ribadisce, penalmente non sanzionabile, richiesta di amori ancillari”.
La Corte ha dato ragione ai giudici dell’appello nella parte in cui gli stessi hanno valutato penalmente irrilevanti anche le intercettazioni dell’uomo (registrato inconsapevolmente dalla donna). I giudici hanno affermato che nelle intercettazioni egli non avrebbe mai minacciato direttamente la lavoratrice, ma avrebbe, “con la ricordata insistenza” chiesto di “avere con lei un approccio di natura sessuale”. La Corte ha sottolineato come l’uomo abbia sempre promesso un pagamento extra per questi presunti “favori” e che “non le indirizza alcuna minaccia, anzi la invita a soddisfare la sua richiesta «per favore» od anche «per piacere»”. I giudici hanno pertanto ritenuto l’argomento della minaccia inammissibile, riprendendo quanto già statuito nel secondo grado di giudizio, e l’inapplicabilità dell’art. 609 bis, I comma.
La Corte, inoltre, ha stabilito: “ne può dirsi, conformemente alla Corte di merito, che possa integrare il comportamento minatorio l’uso di espressioni del tipo «Chi sta a casa mia deve fare quello che dico io», trattandosi di espressione di tipo meramente declamatorio priva di un’effettiva idoneità a limitare la volontà del soggetto cui la stessa era rivolta e, comunque, non foriera di alcuna conseguenza negativa per costui”.
Infine, la Corte ha avallato la posizione dei gradi precedenti di giudizio nella parte in cui è stata ritenuta inattendibile la testimonianza della donna, o senza adeguati riscontri, e per “opacità caratterizzanti la ricostruzione offerta dalla parte civile”. I motivi della presunta inattendibilità della persona offesa vengono così elencati: la ritrattazione in appello dei presunti tentativi di approcci sessuali condotti con violenza fisica; la disponibilità dell’uomo a pagare la donna per le prestazioni sessuali che “mal si coniuga con un atteggiamento di carattere oggettivamente minatorio”; la “disinvolta franchezza” con la quale la donna si sarebbe rivolta all’imputato per sventare un tentativo di approccio sessuale all’interno dell’autovettura di lui (parole ripetute al pubblico ministero durante l’esame dibattimentale) e che dimostrerebbero lo scarso timore che la donna aveva nei confronti dell’uomo.
Se ci fermiamo alla lettura della normativa penale interna, il tentativo di violenza sessuale, come interpretato dalla stessa Corte di Cassazione e indicato infra, prevede una serie di elementi necessari per la sua configurazione: il tentativo di soddisfacimento del desiderio o stimolo sessuale dell’agente con violenza e minaccia, interpretate come consapevolezza della mancanza del consenso (elemento soggettivo); una condotta univoca tesa a raggiungere l’atto senza riuscirvi per opposizione o fuga della persona offesa o cause esterne (elemento oggettivo). Pertanto, la sola richiesta di compiere atti sessuali non può essere considerata di per sé tentativo di violenza sessuale perché mancherebbe l’elemento della violenza e minaccia nei confronti del bene giuridico tutelato, ovvero la libertà di autodeterminazione sessuale della persona. In questa situazione, tuttavia, le condotte provate e ritenute penalmente irrilevanti sono state plurime e hanno assunto la forma di insistente richiesta unita alla, almeno latente, minaccia. Inoltre, i giudici sembrano non tenere in debita considerazione il fatto che la donna era in una relazione di lavoro connotata dalla subordinazione rispetto all’uomo e, pertanto, in una posizione di maggiore vulnerabilità alle richieste di quest’ultimo. La questione che qui rileva è che i giudici non sembrano considerare la condizione specifica della lavoratrice domestica di origine migrante, non adottando minimamente una prospettiva intersezionale, e facendo decadere anche la possibilità di ricevere un qualsiasi risarcimento economico del danno ricevuto.
L’intersezionalità, di cui ivi è possibile fare solamente un accenno, è un concetto coniato proprio in ambito giuridico da Kimberlé W. Crenshaw nel 1989[1], che rimarca la necessità di una la valutazione multidimensionale delle differenze di razza, genere e classe (e altre) con specifico riferimento alla giustizia, proprio per non incappare in atti e decisioni discriminatori che non tengano in debita considerazione le effettive condizioni materiali delle parti in giudizio. Infatti, nel caso di specie, avere un approccio intersezionale avrebbe significato applicare la norma tenendo a mente le condizioni e gli squilibri intercorrenti tra le parti.
La pronuncia presenta ulteriori caratteri di ambiguità se si guarda alle convenzioni e altre disposizioni internazionali sul tema dello sfruttamento del lavoro di persone vulnerabili quali vengono considerate le donne di origine migrante. Sono proprio alcune disposizioni internazionali acquisite nel nostro ordinamento, come la Direttiva 2011/36/UE[2] sulla tratta di esseri umani, che sanziona le condotte di abuso di autorità o di posizione di vulnerabilità per fini di sfruttamento (art. 2, I comma). La Direttiva indica, all’art. 2, II comma, che “per posizione di vulnerabilità si intende una situazione in cui la persona in questione non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non cedere all’abuso di cui è vittima”. Inoltre, anche nel Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite “contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta delle persone, in particolare donne e bambini” del 2000[3], all’art. 3 viene fatta menzione dell’abuso della condizione di vulnerabilità quale uno degli elementi che connota la tratta di esseri umani e il grave sfruttamento con, alternativamente, “l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere”.
La definizione di vulnerabilità non è quindi sconosciuta al nostro ordinamento e sarebbe necessaria un’attenta valutazione da parte degli interpreti quando fronteggino situazioni in cui le condizioni di vita sembrano presentare profili di vulnerabilità e ricattabilità a determinate condizioni di violenza di cui fa parte, necessariamente, anche la violenza sessuale.
Violenza sessuale e uso della scriminante culturale nelle pronunce della Corte di Cassazione
È balzata agli onori (o disonori) della cronaca, lo scorso 11 settembre 2023, la richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero della Procura di Brescia per il reato di maltrattamenti (e violenza sessuale) imputato a un uomo originario del Bangladesh nei confronti della moglie, anch’essa di origini bengalesi[4]. Il pubblico ministero ha chiesto l’archiviazione per mancanza di “abitualità” nelle condotte e utilizzando la c.d. “scriminante culturale”, in contrasto con il parere del giudice delle indagini preliminari. Come citato da fonti giornalistiche, il pubblico ministero ha argomentato che “i contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura, che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine”; mancherebbe, pertanto, l’elemento soggettivo del reato in quanto l’imputato avrebbe agito “in base alla propria cultura e non per la volontà di sottomettere”[5]. Il 17 ottobre 2023 il Giudice delle indagini preliminari (GIP) del Tribunale di Brescia ha provveduto all’archiviazione dopo che, sempre secondo quanto riportato da fonti giornalistiche, il pubblico ministero, nel riformulare la richiesta di archiviazione, avrebbe eliminato il riferimento alla cultura di provenienza, mantenendo la formula del “fatto non sussiste” in quanto mancherebbe l’abitualità delle condotte che connota il reato di maltrattamenti[6]. La Procura di Brescia, per voce del capo procuratore Francesco Prete, si è dissociata dalle richieste del magistrato requirente indicando che la Procura “ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi riferimento «culturale», nei confronti delle donne”[7]. Osservando questo caso potrebbe sembrare che la proposizione di “scriminanti culturali” sia rara -ed eccezionale- sui banchi della giustizia, ma invero l’utilizzo di tali scriminanti non è affatto pacifico.
Osservando le pronunce della Corte di Cassazione nei casi di violenza sessuale, i giudici si sono espressi molte volte sulla scriminante culturale. Tra il 2019 e il 2023 la Corte si è pronunciata in 7 casi[8] sulla cosiddetta “scriminante culturale” ove l’imputato aveva origini migranti. L’espressione “scriminante culturale” non si riferisce in realtà ad a un istituto presente nell’ordinamento ma a motivazioni, presenti talora nel ragionamento giuridico, che chiamano in causa fattori culturali per escludere o ridurre la punibilità di coloro che sono accusati di violenza sessuale. Tra le pronunce analizzate 6 su 7 riguardano persone che erano relazioni di coniugio o relazioni di prossimità.
Dei 7 ricorsi sottoposti al vaglio della Suprema Corte, 6 sono stati dichiarati inammissibili o infondati. L’iter processuale fa emergere che, in linea con il consolidato orientamento della Corte di Cassazione, fin dalla pronuncia del tribunale, e a seguire nel secondo grado di giudizio, i giudici escludono il ricorso a motivi culturali. In un solo caso la Suprema Corte ha cassato la sentenza della Corte d’Appello di Milano, in Cass. pen., sez. VI, sent. n. 19829/2022 del 19.05.2022, ove i giudici di secondo grado avevano inflitto una pena minore all’imputato escludendo l’accusa di violenza sessuale e configurando solamente quella di maltrattamenti. Inoltre, era stato riconosciuto un risarcimento del danno in misura ridotta alla persona offesa dal reato. Nell’escludere il capo d’imputazione, i giudici hanno utilizzato l’argomento della “scriminante culturale” indicando come non vi fossero chiari elementi di dissenso da parte della moglie per via del “sostrato culturale dei coniugi” (due persone originarie di un paese del nord africa e di religione musulmana). La Suprema Corte ha ribaltato la decisione, rinviandola ai giudici milanesi, cassando la motivazione nella parte in cui veniva esclusa l’applicabilità dell’art. 609 bis, I comma. I giudici hanno così argomentato: “A tale stregua il giudizio della Corte, pur facendo riferimento a rapporti non desiderati né graditi, finisce per attribuire rilievo ad un sistema culturale e alle conseguenze di un matrimonio combinato dalle famiglie, senza spiegare il valore in concreto attribuibile alla pretesa indifferenza della donna e contraddittoriamente domandandosi se la condotta dell’uomo non costituisse piuttosto una reazione alla passività di lei, ciò che nel contempo disvela l’inesatto inquadramento dell’elemento del consenso e l’incongrua svalutazione di dati, al contrario, sintomaticamente rappresentativi di dissenso”.
Con un’analoga linea argomentativa, nel 2023 la Corte d’Appello di Ancona, con la sentenza n. 687 del 16.06.2023 ha ribaltato la decisione del Tribunale di Urbino, sent. 214/2020 del 16.12.2020, che utilizzava la scriminante culturale per assolvere un uomo marocchino dalla tentata violenza sessuale nei confronti della moglie. Invero, questo tipo di argomentazioni degli organi giudicanti sono utilizzate non solo quando ad essere imputati sono degli uomini di origine migrante. Infatti, nello stesso periodo di riferimento (2019 -2023) vi sono state altre pronunce della Corte di Cassazione[9] in cui vengono chiamati in causa i “motivi culturali” o il “retaggio culturale” anche quando l’imputato e la persona offesa non abbiano un background migratorio. Nella pronuncia n. 37978/2023 la Corte d’Appello di Napoli ha ribaltato la decisione del Tribunale ove, in una situazione di maltrattamenti e violenza sessuale dell’imputato sulla sua compagna, il giudice di prime cure aveva accolto argomenti per i quali sarebbe stata la donna, con la sua gelosia e il rifiuto ad avere rapporti sessuali con il compagno a provocare le violenze. La Suprema Corte, in Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 37978/2023 del 15.09.2023, ha rigettato il ricorso proposto dalla difesa dell’imputato e ha ribadito come il giudice di prime cure abbia utilizzato dei presunti “motivi culturali” per scriminare la condotta di quest’ultimo. Nello specifico, la Suprema Corte ha sanzionato l’argomento per il quale la donna non avrebbe “soddisfatto l’immagine cui deve corrispondere la persona offesa di questi reati, secondo stereotipi culturali interiorizzati come quello di avere provocato e di essersi cercata la violenza subita, incluso il rifiuto di rapporti sessuali con il compagno”. E ancora in Cass. pen., Sez. III, sent., n. 38567/2023 del 13.10.2023 i giudici nomofilattici hanno cassato la sentenza della Corte d’Appello di Venezia che aveva ridotto la pena comminata dal Tribunale di Padova nei confronti di un uomo italiano di origini rom che aveva “acquistato” una donna minorenne per farne la sua sposa, l’aveva costretta ai lavori domestici e aveva avuto rapporti sessuali con lei. In questo caso la difesa si era appellata più volte alla cultura rom per indicare che gli accordi matrimoniali che prevedono uno scambio economico, e il tipo di vita imposto alla “sposa”, erano del tutto in linea con la cultura e la tradizione della comunità rom. Sulla stessa questione la Corte si è pronunciata nella sentenza Cass. pen., Sez. V, sent. n. 18726/2022 del 11.05.2022 nei confronti di una donna di origine rom che aveva “acquistato” e condotto una donna minorenne in Italia per farne la sposa del figlio. Sempre nei confronti di un cittadino italiano è la sentenza Cass. pen., Sez. V, n. 21133/2019 del 15.05.2019 in cui la Suprema Corte, a seguito di ricorso avverso una pronuncia della Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria, ha indicato che in tema di maltrattamenti e violenza sessuale: “l’autore del reato non può invocare, a propria discolpa, l’inesigibilità di un comportamento diverso da quello tenuto siccome coartato dalla volontà di altri, che abbia imposto un proprio modello culturale improntato ad autoritarismo maschilista, in quanto il principio della non esigibilità non trova applicazione al di là delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate”.
La Corte di Cassazione si è dunque espressa in modo autorevole sulla questione in diverse occasioni, escludendo esplicitamente la possibilità di configurare una qualsivoglia ipotesi di scriminante culturale nei casi di violenza sessuale e maltrattamenti. Inoltre, per citare altre importanti pronunce sul punto, in Cass. pen., Sez. III, n. 7590/2020 del 26.02.2020, è stata affermata la massima: “In tema di reati sessuali, non assumono alcun rilievo scriminante eventuali giustificazioni fondate sulla circostanza che l’agente, per la cultura mutuata dal proprio paese d’origine, sia portatore di una diversa concezione della relazione coniugale e dell’approccio al rapporto sessuale, in quanto la difesa delle proprie tradizioni deve considerarsi recessiva rispetto alla tutela di beni giuridici che costituiscono espressione di diritti fondamentali dell’individuo”. Ulteriormente, in Cass. pen., Sez. III, sent. n. 8986/2019 del 12.12.2019 è specificato: “in tema di cause di giustificazione, lo straniero imputato di un delitto contro la persona o contro la famiglia non può invocare, neppure in forma putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi oggettivamente incompatibile con le regole dell’ordinamento italiano, in cui l’agente ha scelto di vivere, attesa l’esigenza di valorizzare la centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l’instaurazione di una società civile multietnica”[10]. Simili orientamenti sono consolidati da molti anni presso la Suprema Corte in riferimento al reato di maltrattamenti (tra tutte, Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 46300/2008, del 16.12.2008); e anche in riferimento ad altri reati contro la persona come l’accattonaggio compiuto da minori in Cass. pen., Sez. I, sent. n. 7140/2021, del 1.12.2021; il reato di riduzione in schiavitù, in Cass. pen., Sez. V, sent. n. 30538/2021, del 13.05.2021; delitti contro la persona e la famiglia in Cass. pen., Sez. III, sent. n. 8986/2019 del 01.12.2019. Infine, fin dal 2011 la Corte di Cassazione ha escluso il riferimento anche a presunte convinzioni culturali che avrebbero un’origine “locale” (e non imputabile all’appartenenza a stati esteri). I giudici, in Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 26153/2011 del 26.04.2011, hanno infatti indicato che non “rileva in alcun modo, quindi, la circostanza che il marito abbia agito sulla base della convinzione della superiorità della figura maschile all’interno della famiglia, e della conseguente legittimità di atteggiamenti «padronali» nei confronti della moglie”.
Un tale orientamento non pregiudica il fatto che, come indicato in tempi recentissimi dall’ Ufficio del giudice delle indagini preliminari (GIP) del Tribunale di Torino, sent. n. 351 del 01.03.2023, in una pronuncia circa i reati di violenza sessuale e maltrattamenti imputati ad un uomo con background migratorio nei confronti della moglie (anch’essa di origine migrante), che “la diversità culturale possa rilevare in sede di determinazione della pena (art. 133 c.p.), incidendo favorevolmente nel valutare i motivi a delinquere e la personalità del reo”. Una tale considerazione, aggiunge il giudice torinese citando molte delle sentenze qui menzionate, è avallata dalla Suprema Corte che, tuttavia, persegue un consolidato orientamento volto a non ritenere possibile che motivi culturali possano fungere da scriminante o giustificazione di reati tanto da farne venire meno l’imputazione.
La questione che qui rileva è che le scriminanti culturali continuano ad attraversare, seppure in presenza di un orientamento prudenziale consolidato, le stanze della giustizia fino ad arrivare al più alto grado di giudizio del nostro ordinamento. Da una parte le difese sembrano proporre molto spesso queste argomentazioni, dall’altra parte, e come si è avuto modo di osservare, alcuni giudici di primo e secondo grado sembrano ancora avallare posizioni in contrasto con un orientamento che sembrerebbe inamovibile.
La violenza sessuale nelle pronunce della Corte di Cassazione in materia di protezione internazionale
La violenza sessuale, considerata all’interno della più ampia violenza di genere, ha avuto un riconoscimento frammentario quale fatto alla base del riconoscimento di una qualche protezione alle donne che migrano. In particolare, si fa riferimento alla tutela che le donne chiedono nell’accesso al territorio europeo con la domanda di protezione internazionale. Nella Convenzione di Ginevra del 1951, il genere e il sesso non sono stati originariamente posti come motivi di persecuzione riconosciuti alla stregua di ottenere la protezione degli stati firmatari. Solo a partire dalle Linee Guida del 2002 sulle persecuzioni di genere dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR)[11] le stesse sono state riconosciute, e le donne sono state definite come uno specifico gruppo sociale. La novità è stata accolta dalla legislazione europea nella c.d. Direttiva Qualifiche (di cui l’ultima versione risale al 2011)[12] ed arricchita dalle nuove Linee Guida dell’UNHCR del 2012[13] che allargano la protezione alle persone LGBTQIA+, riconoscendo definitivamente le persecuzioni sulla base dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. Se le Linee Guida sono strumenti di cosiddetto soft law, non è così per la Convenzione di Istanbul del 2011[14] che indica all’art. 60 che gli Stati firmatari debbano adottare “le misure legislative di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di persecuzione ai sensi dell’art. 1, A (2) della Convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 e come una forma di grave pregiudizio che dia luogo a una protezione complementare/sussidiaria”. Sono trascorsi molti anni dall’introduzione di queste disposizioni e, sebbene in modo non omogeneo, è abbastanza pacifico il riconoscimento dello status di rifugiata o la protezione sussidiaria alle donne c.d. vittime di tratta, donne costrette a matrimonio forzato e coloro che subiscono le mutilazioni genitali (MGF) sia da parte delle Commissioni Territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, sia da parte dei Tribunali chiamati in seconda istanza in caso di rigetto della domanda da parte delle Commissioni. Sono stati proprio i Tribunali che, per primi, hanno accolto gli orientamenti citati e hanno iniziato a riconoscere lo status di rifugiate per le persecuzioni per motivi di genere. Il percorso risulta ancora faticoso e pieno di incertezze per le donne richiedenti asilo, le quali devono ancora dimostrare, attraverso un racconto attendibile, la loro condizione di vulnerabilità e dissenso a fenomeni quali la tratta, il lavoro sessuale forzato e gli abusi subiti durante, ad esempio, il viaggio e soggiorno nei paesi di transito. E non risulta pacifico, come in questo frangente si vuole portare all’attenzione, il riconoscimento della protezione per le donne che abbiano subito altre forme di violenza di genere, e specificatamente la violenza sessuale, nei paesi di origine ove queste condotte risultano perlopiù impunite dagli apparati giurisdizionali e/o amministrativi.
Negli ultimi anni, la Corte di Cassazione e altre corti superiori (d’appello[15]) si sono espresse in maniera univoca sul punto, cassando sentenze provenienti dai tribunali che avevano vagliato ricorsi contro i dinieghi della protezione internazionale da parte delle Commissioni Territoriali. È il caso di citare la nota sentenza Cass. civ., Sez. III, ordinanza n. 16172/2021 del 09.06.2021 adita dalla difesa di una donna nigeriana. In questa pronuncia la Corte ha indicato che: ”premesso il consolidato principio di diritto, a mente del quale la violenza di genere (che comprende il matrimonio imposto ed il tentativo di abusi sessuali) rientra, ipso facto, tra le circostanze che giustificano il riconoscimento della protezione internazionale, si deve ritenere che essa possa costituire anche presupposto per l’attribuzione dello status di rifugiato ai sensi della convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, interpretata alla luce delle linee guida dell’UNHCR sulla persecuzione di genere; in esse si evidenzia come, nonostante la definizione di rifugiato, di cui all’art. 1 lett. A n. 2 della convenzione e all’art. 2 comma 1 lett. e del d.lgs. 19 novembre 2007 n. 251, non preveda espressamente l’appartenenza di genere tra le cause di persecuzione, è necessario, tuttavia, che la disciplina dell’asilo sia letta anche in un’ottica di genere, intendendosi tale concetto come status di appartenenza sociale, economica e culturale e non soltanto come grossolana differenziazione biologica e chimica tra sessi opposti. Pertanto, l’appartenenza di genere può (e anzi deve) essere considerata, in determinate condizioni, come riferibile «ad un particolare gruppo sociale», che può essere oggetto di persecuzioni ai sensi e per gli effetti di cui al citato art. 1 lett. A n. 2, sì che a una donna di origine nigeriana, soggetta a pressioni reiterate e insinuative per indurla a contrarre matrimonio, nonché a molestie sessuali per avervi opposto rifiuto, va riconosciuto lo status di rifugiato, qualora vi sia il rischio che ella possa nuovamente essere sottoposta a trattamenti parimenti lesivi dei suoi diritti fondamentali, in caso di rientro nel Paese di origine”. Nel caso di specie la donna aveva ricevuto il rigetto della domanda di protezione internazionale da parte della Commissione Territoriale di Ancona e il rigetto del successivo ricorso che aveva presentato presso il tribunale locale, rimanendo sguarnita di protezione fino alla decisione dei giudici nomofilattici.
Similmente, la Corte di Cassazione, in Cass. civ., Sez. I, ordinanza n. 18803/2020 del 10.09.2020, ha cassato una sentenza del Tribunale di Bari che non riconosceva la protezione internazionale ad una donna che aveva subito maltrattamenti e violenze sessuali dal marito fino al momento della fuga in Italia. La donna aveva denunciato alle autorità del paese di origine la condotta dell’uomo senza ottenere alcuna tutela in quanto ivi tali condotte sono de facto impunite. I giudici hanno affermato che: “La violenza di genere, al pari di quella contro l’infanzia, non può essere ricondotta alla categoria del «fatto meramente privato», poiché essa costituisce una delle fattispecie espressamente previste dall’art. 7, comma 2, D.Lgs. n. 251 del 2007 ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, sia con riferimento agli «atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale», che con riguardo, in generale, «agli atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia»”.ha cassato una sentenza del Tribunale di Bari che non riconosceva la protezione internazionale ad una donna che aveva subito maltrattamenti e violenze sessuali dal marito fino al momento della fuga in Italia. La donna aveva denunciato alle autorità del paese di origine la condotta dell’uomo senza ottenere alcuna tutela in quanto ivi tali condotte sono de facto impunite. I giudici hanno affermato che: “La violenza di genere, al pari di quella contro l’infanzia, non può essere ricondotta alla categoria del «fatto meramente privato», poiché essa costituisce una delle fattispecie espressamente previste dall’art. 7, comma 2, D.Lgs. n. 251 del 2007 ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, sia con riferimento agli «atti di violenza fisica o psichica, compresa la violenza sessuale», che con riguardo, in generale, «agli atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia»”.
Negli ultimi anni, anche altre corti quale la Corte d’Appello di Napoli[16] nella sentenza n. 3784 del 25.07.2018, aveva previsto il riconoscimento dello status di rifugiato per persecuzioni sulla base del genere quale, tra le altre, la violenza sessuale. Nel caso di specie la Corte era stata chiamata a vagliare il caso di un uomo bengalese la cui domanda era stata rigettata dal Tribunale di Napoli. I giudici avevano stabilito che: “in tema di protezione internazionale dello straniero, il riconoscimento dello «status» di rifugiato spetta a chi sia perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o opinione politica e postula, ai sensi dell’art. 7 del D. Lgs. 19 novembre 2007 n. 251, che gli atti di persecuzione siano sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti fondamentali o costituire la somma di diverse misure tra cui la violazione di diritti umani, il cui impatto sia tale da rappresentare una violazione grave dei diritti fondamentali; e possono tradursi in atti di violenza fisica o psichica tra cui la violenza sessuale, in provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio; in azioni giudiziarie o in sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie, in azioni giudiziarie conseguenti al rifiuto di prestare il servizio militare in un conflitto, quando questo potrebbe comportare la commissione di crimini di guerra o contro l’umanità; in atti specificamente diretti contro un genere sessuale o contro l’infanzia”. La pronuncia ha potenziato la tutela rispetto a una decisione simile della Corte d’Appello de L’Aquila, nella sentenza n. 88 del 18.01.2018, in cui venivano riconosciuti i “gravi motivi umanitari” e, pertanto, il solo riconoscimento della c.d. protezione umanitaria[17] per le persecuzioni per motivi di genere quali i maltrattamenti e la violenza sessuale. In tempi recenti la Suprema Corte si è espressa ancora sul punto, in Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., n. 24272/2022 del 04.08.2022, ove ha cassato una sentenza del Tribunale di Ancona ed ha riconosciuto lo status di rifugiata ad una donna marocchina che aveva subito abusi e violenze da parte dell’ex marito. La donna era riuscita ad ottenere il divorzio ma, tuttavia, non aveva ricevuto alcuna tutela dallo stato marocchino che lascia spesso impunite queste condotte. Il Tribunale di Ancona, nel rigettare il ricorso della donna, aveva stabilito che le condotte sanzionate erano da considerarsi quali “fatti meramente privati” e, inoltre, non le riconosceva nessun profilo di vulnerabilità così da permettere almeno il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Nello stesso anno, la Suprema Corte si è trovata nuovamente a cassare una sentenza del Tribunale di Perugia ove non veniva riconosciuta alcuna tutela ad una donna albanese offesa da violenze plurime ad opera del padre e, successivamente, del futuro marito. In questa pronuncia, Cass. civ., Sez. III, Ord., n. 12647/2022 del 20.04.2022, i giudici hanno affermato nuovamente: “In tema di protezione internazionale, ai fini del riconoscimento dello «status» di rifugiato politico costituiscono atti di persecuzione basati sul genere, ex artt. 7 e 8, comma 2, lett. f), del d.lgs. n. 251 del 2007, la violenza fisica e psichica esercitata su di una donna per costringerla al matrimonio, lungi dal rappresentare una vicenda di tipo meramente privatistico, rappresenta, per converso, una ipotesi paradigmatica di violenza di genere, a più forte ragione nel caso in cui i comportamenti tenuti da padri e futuri mariti si conformino perfettamente, come nel caso di specie, ad un codice di comportamento (in Albania, il cd. Kanun)(…)”. Da ultimo, la pronuncia Cass. civ., Sez. I, Ord., n. 23883/2023 del 04.08.2023 ha cassato la decisione del Tribunale di Trieste che non aveva riconosciuto lo status di rifugiata ad una donna nigeriana che aveva (si cita il testo della sentenza) dichiarato la seguente vicenda personale: “La ricorrente, cittadina nigeriana, ha chiesto la protezione internazionale dichiarando che, dopo essere stata stuprata all’età di sedici anni ed avere così avuto una figlia, era stata oggetto di sfruttamento, dapprima lavorativo e poi sessuale, da parte di uno zio, per sfuggire al quale si era affidata ad una organizzazione che l’aveva condotta in Libia, consegnandola ad una «madam» per essere avviata alla prostituzione; di essere poi fuggita da tale situazione grazie ad un giovane gambiano che l’ha aiutata ad imbarcarsi per l’Italia con la promessa di matrimonio, rivelatasi fittizia; ha dichiarato altresì di avere contratto debiti”. Il Tribunale di Trieste aveva rigettato il ricorso motivando che non ricorrevano i presupposti per il rilascio della protezione internazionale in quanto in Nigeria i reati denunciati dalla donna (tratta, sfruttamento del lavoro, violenza sessuale e violenza privata) sarebbero puniti dall’ordinamento; il giudice di prime cure aveva, inoltre (e addirittura), indicato che la donna difettava di adeguata integrazione in Italia tale da permettere almeno il rilascio della c.d. protezione speciale[18]. Pertanto, anche in materia di protezione internazionale, la Corte di Cassazione ha costruito (ed è ancora alle prese con la costruzione di) un consolidato orientamento prudenziale volto a dare tutela a chi subisce violenza sessuale nel proprio paese di origine, ricomprendendola nella più ampia categoria di violenza di genere e riconoscendola puntualmente come un atto persecutorio.
[1] K. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, in University of Chicago Legal Forum, Vol. 1989, Iss. 1, Article 8.
[2] Direttiva 2011/36/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 5 aprile 2011 concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GA.
[3] Protocollo addizionale (detto Protocollo di Palermo) alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale (2000) adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con Risoluzione A/RES/55/25 del 15 novembre 2000. Entrata in vigore il 29 settembre 2003.
[4] “Brescia, maltrattamenti alla moglie. Il pm chiede l’assoluzione: «Fatto culturale»”, Rai News – Tgr Lombardia, A. Ambrogi e A. Marzocca, 11.09.2023, https://www.rainews.it/tgr/lombardia/articoli/2023/09/brescia-maltrattamenti-alla-moglie-il-pm-chiede-lassoluzione-fatto-culturale-603858c8-fd5a-4c83-a69f-18e20b6b5ff9.html
[5] Cito da “Brescia, il pm vuole assolvere il marito violento: «È del Bangladesh, si tratta di un fatto culturale». Scoppia la polemica (anche politica)”, Corriere della Sera – Brescia, M. Rodella, 12.09.2023, https://brescia.corriere.it/notizie/cronaca/23_settembre_12/maltrattamenti-alla-moglie-il-pm-chiede-l-assoluzione-del-marito-perche-si-tratta-di-un-fatto-culturale-e-polemica-5966d2cd-e9f3-4a2d-82a9-17527a16cxlk.shtml
[6] “Assolto a Brescia il marito bengalese perché il fatto non sussiste, era accusato di maltrattamenti sulla moglie. Il pm: «Manca l’abitualità delle violenze»”, La Stampa, S. Montillo, 17.10.2023, https://www.lastampa.it/cronaca/2023/10/17/news/assolto_a_brescia_il_marito_bengalese_perche_il_fatto_non_sussiste_era_accusato_di_maltrattamenti_sulla_moglie_il_pm_man-13791018/
[7] “La procura contro il suo pm: no al relativismo giuridico e culturale”, Il Manifesto, Redazione, 12.09.2023, https://ilmanifesto.it/la-procura-contro-il-suo-pm-no-al-relativismo-giuridico-e-culturale
[8] Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 13786/2023 del 03.04.2023; Cass. pen., Sez. VI, sentenza n. 19829/2022 del 19.05.2022; Cass. pen., Sez. III, sentenza , n. 32390/2021 del 31.08.2021; Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 17389/2021 del 06.05.2021; Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 13637/2020 del 06.05.2020; Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 8986/2020 del 05.03.2020; Cass. pen., Sez. III, sentenza n. 48188/2019 del il 27.11.2019
[9] Cass. pen., Sez. VI, sentenza pubblicata il 15/09/2023, n. 37978; Cass. pen., Sez. III, sentenza pubblicata il 13/10/2022, n. 38567; Cass. pen., Sez. V, sentenza pubblicata il 11/05/2022, n. 18726; Cass. pen., Sez. III, sentenza pubblicata il 17/03/2021, n. 10213; Cass. pen., Sez. V, sentenza pubblicata il 15/05/2019, n. 21133.
[10] La sentenza riprende un orientamento già fissato in Cass. pen., Sez. III, sent. n. 14960/2015 del 29.01.2015.
[11] Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, LINEE GUIDA SULLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE N. 1.
La persecuzione di genere nel contesto dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, 7 maggio 2002, HCR/GIP/02/01, https://www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2020/07/LINEE_GUIDA_SULLA_PERSECUZIONE_DI_GENERE.pdf
[12] DIRETTIVA 2011/95/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 13 dicembre 2011 recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32011L0095
[13] Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, LINEE GUIDA IN MATERIA DI PROTEZIONE INTERNAZIONALE N.9. Domande di riconoscimento dello status di rifugiato fondate sull’orientamento sessuale e/o l’identità di genere nell’ambito dell’articolo 1A(2) della Convenzione del 1951 e/o del suo Protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati, HCR/GIP/12/09, 23 ottobre 2012, https://www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2020/07/Linee_guida_SOGI_ITA2012.final_.pdf
[14] Consiglio d’Europa, Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, Istanbul, 11 maggio 2011.
[15] Prima dell’eliminazione della possibilità di proporre appello a questo tipo di decisioni introdotto dal D.L. n. 13 del 2017 c.d. “Decreto Minniti – Orlando”.
[16] Vedi infra nota n. 13.
[17] La c.d. “protezione umanitaria” era prevista dall’art. 5, VI comma, del D.Lgs n. 286/1998, poi abrogata dal D.L. n. 132/2018 detto “Decreto Sicurezza” o “Decreto Salvini”.
[18] La c.d. protezione speciale si trova all’art. 19 del Testo unico immigrazione, D.Lgs. 286/1998, introdotta dal D.L. n. 132/2018 detto “Decreto Sicurezza” o “Decreto Salvini”, ampliata dal D.L. 130/2018.
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